lunedì 5 dicembre 2011

Negozietti

Anonimo commerciale...
La tortura annuale dello shopping imposto si sta avvicinando, inesorabile. Fatico a tollerare le imposizioni, e questa lo è. Tiro fuori dal discorso quello che riguarda la felicità dei più piccoli, forse una delle ultime zone franche su cui ci si possa trovare d'accordo. Certo, ci sarebbe anche da tenere in considerazione la fascia meno protetta (ma proprio a livello planetario). Tutta la mia ammirazione a chi lo fa, ma non è questo il discorso.

Negli ultimi anni la geografia dello shopping è stata radicalmente stravolta dalla nascita dei centri commerciali. Enormi, comodi, ci si trova di tutto, ogni tanto le offerte sono veramente interessanti, la grande distribuzione permette tenere prezzi alla clientela più vantaggiosi lavorando sui volumi. Bla bla bla, tutto noto e arcinoto.

L'effetto collaterale più triste di questa fioritura è stata l'inevitabile caduta del commercio al dettaglio. Il negozietto, magari in zona più centrale, deve pagare un affitto più esoso rispetto al centro commerciale. Non sempre può garantire un parcheggio gratuito enorme, il suo assortimento è di un certo tipo e non è un mostro omnicomprensivo, il prezzo a volte non è competitivo. Questo alla fine ha comportato un numero rilevante di chiusure e fallimenti di oneste attività commerciali. I locali vengono rilevati o da chi ha un franchising alle spalle, o dai punti per scommesse (detestabili) o dalle stramaledette onnipresenti agenzie immobiliari.

E' un ovvio risultato della globalizzazione all'italiana. Magari nei pochi negozi seri che ancora esistono ci può essere il valore aggiunto della competenza del venditore. Prendiamo una enoteca che si rispetti. Se sta lì dai suoi trent'anni magari è il business di famiglia, c'è chi ha investito vita e averi in una cultura, nel voler offrire un servizio in un certo modo. Mi saprà consigliare una bottiglia di un certo tipo da accompagnare ad un certo pasto. Può starci che in un supermercato di un centro commerciale trovo la stessa bottiglia al dieci per cento in meno, ma poichè nessuno ha saputo guidarmi "verso di lei", potrei pure arrivare a pensare che per essere una bottiglia che vendono a un supermercato è anche cara, no?

Avere a disposizione una professionalità di un certo tipo ora non va più di moda. A nessuno interessa sapere che magari la lavorazione di un capo di abbigliamento di sartoria richiede pazienza e perizia. Come pure abbinare in un certo modo i sapori dei cibi. Scegliere un libro quando si ha una idea vaga. Trovare quel disco lì di quel cantante lì che nemmeno su Google (caso limite: dice il saggio che se non lo trovi su Google non esiste...). Avere qualche cenno su ingredienti e lavorazione di quella torta che ti ha fatto impazzire...  Ovvio, la grande distribuzione su questo non può non avere un approccio forzatamente impersonale, anche i negozi standard immersi in quella logica attenuano un po' la dimensione relazionale. Essendoci più passaggio c'è un po' meno di attenzione verso il singolo cliente.

E non parliamo delle particolarità gastronomiche. L'esempio su cui ho un nervo scoperto è la bufala, il modo più perfetto che uomo e natura hanno trovato per assemblare i grassi. Al supermercato sono tutte maledettamente uguali e tristi. Stesso saporino anonimo, stessa mancanza di personalità. Magari il negozietto ha il suo pusher proveniente dall'hinterland beneventano. Magari meglio fare una domanda in meno che una in più. Ma tra la bufala massificata (per l'amor di Dio con tutte le sue certificazioni ben esposte) e quella "zitto e magna", il confronto è impietoso nella quasi totalità dei casi. Mi viene in mente Saviano, quando racconta del ragazzo di sistema che porta una cassetta di mozzarelle in Russia, nelle mani personali dell'ex colonnello Kalashnikov (sì, quello dell'AK 47). Se solo si fosse azzardato a portare quelle belle vaschette in plastica da supermercato con tanto di bufala sorridente sulla confezione, il colonnello avrebbe potuto anche rispolverare qualche vecchio cimelio che teneva a casa...

Alla fine la mappa dei negozi in un quartiere medio è ormai tracciabile con monotona regolarità. Supermercato in franchising, tabaccheria, estetista, negozio cinese, farmacia, negozio cinese, alimentari di nicchia soprannominato Bulgari, alimentari sfigato, frutteria cingalese, gelateria onesta, negozio cinese, tabaccheria, negozio cinese, noleggio film, bottiglieria, negozio cinese. Più o meno siamo messi così.
Tanto i centri commerciali grossi fra dentro e fuori il raccordo ormai sono circa una decina, belli luminosi e raggiungibili.

Il negozio cinese mi intristisce particolarmente. Vorrebbe essere una risposta adhocratica ad ogni necessità e ad ogni contingenza. Inevitabilmente assume l'aria un po' sciatta dell'emporietto di secondo ordine. Sei sotto natale? Deborda di decori per alberi, presepi a buon mercato, regaleria di fascia bassa. Mah. Nello stesso negozio ci trovi scarpe, colori, quaderni, ombrelli, utensileria. Tutto in un suo ordine apparente, tutto però confuso, in una sorta di irritante ossessione per cui c'è la pretesa di trovare qualsiasi cosa serva. 

Non mi piace nemmeno un po' questo modo di presentare le cose, ma vista la proliferazione un po' pervasiva di questo modello di business, forse ci sarebbe da valutare seriamente cosa può esserci dietro.


venerdì 25 novembre 2011

La civiltà dell'attimino

Inizio assolutamente in maniera seria e istituzionale...


Testo tratto dal Portale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, www.treccani.it




http://www.treccani.it/vocabolario/ortografia/


Come si vede dalla sobria eleganza dell'immagine, alla voce ortografia un vocabolario di riconosciuta autorevolezza riporta una definizione inequivoca: l'insieme delle regole sottese alla struttura linguistica di base. Il modo per assemblare le varie parti dell'edificio perchè questo non cada. L'etimologia è così trasparente: scrittura corretta.

L'ortografia è forse il primo insieme di regole con cui ognuno di noi si trova a fare i conti nell'arco della propria vita al di fuori del contesto familiare. Quando ti confronti con l'ortografia ormai ti hanno consegnato al mondo. E' un po' come il codice della strada: una bella costruzione, coerente e corretta, che se osservata e rispettata con costanza permette l'utilizzo e la fruizione di qualcosa in un modo accettato e condiviso da tutti. Vale sia per la strada che per la lingua scritta o parlata. 

Uff. Che introduzione parafilosofica che è uscita. Tento di tirarmene fuori. Non per sterile esercizio di purismo (può capitarmi tranquillamente di utilizzare termini in maniera less than optimal), ma nel tempo m'è venuta una robusta intolleranza verso una lunga serie di violenze perpetrate ai danni della lingua italiana, che di suo resta uno strumento espressivo veramente affascinante.

Dove il fastidio diventa quasi fisico è per tutti quei termini che l'abbassamento del livello culturale medio ha dirottato verso una diversa riscrittura del termine stesso, o verso un utilizzo semanticamente differente dall'originale.

Esempio facile. Se in terza elementare avessi scritto famigliare in luogo di familiare, la mia eccezionale (ancorchè acidina) maestra avrebbe calato impietosa la scure del 4. Anche solo con quell'errore lì. L'etimologia è chiara. Si accetta ovviamente che il derivato diretto da familia,ae sia famiglia. Ma per il resto no, diamine. Familiare, familistico, familiarità, familismo (amorale...). Familiare ormai è caduto. Aspetto con paura il resto...
E questa superficialità, queste continue deroghe alla correttezza nell'uso e nella scrittura dei vocaboli sono ormai problemi generalizzati. Fior di laureati che dicono con regolarità "dovrò disdettare l'abbonamento", "avrò cura di redarre il verbale della riunione". Senza contare l'italianizzazione di termini stranieri. Se sento qualcosa che eccede la soglia della formattazione comincio a manifestare insofferenza.

E il diminutivo generalizzato, da captatio benevolentiae... Aspetta un attimino, mi servirebbe un aiutino. Da orticaria, proprio. Anche se ortographically correct, è un atteggiamento che denota una pochezza di ricerca del vocabolo e una pigrizia nella sfera del pensare che mi intristiscono

Il top.
Aereoporto. Attendo di imbarcarmi. Due manager di fascia media che parlottano sulla qualità dei regali ottenibili coi punti delle compagnie aeree. Legittimo. Lui che tutto contento racconta del prossimo viaggio a Tokio. Lei che racconta del suo precedente viaggio a Tokio. Scossa di terremoto in aereoporto "Guarda, non ci crederai, come se non stesse succedendo nulla. Lì sono così abituati che è tutto procedimentalizzato!"
Mi giro. Ostentatamente la squadro da capo a piedi. E' perchè sono un non violento, in fondo. 

Siamo partiti da famigliare. Non lo scriverò mai, non mi piace. Ma è riportato dai dizionari (non come grafia principale). Siamo arrivati a procedimentalizzato 

Procedimentalizzato no. E' da punizione fisica.

L'immagine riportata nel post viene utilizzata con espressa autorizzazione dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, a cui invio un ringraziamento per la cortesia con cui hanno accolto la mia richiesta.

E' vero! :)


venerdì 18 novembre 2011

Maya's Blog

Real Politik secondo Maya :)
Da qualche giorno ho scoperto un blog che è un piccolo capolavoro. Prendendo spunto da una intervista televisiva all'autrice, m'è venuta la curiosità di approfondire e ho visto davvero un modo di fare blogging del tutto personale, accattivante, voglio usare proprio il termine talentuoso.

Amalgam è il comic blog di Maya Zankoul (1986), bravissima graphic artist libanese. Il blog negli anni scorsi è diventato una bella success story, e la sua trasposizione su libro ha avuto un successo commerciale notevolissimo. Strameritato!

Maya si diverte a leggere l'impigrimento mentale della borghesia libanese, con un occhio e una sensibilità che vengono resi in maniera quasi magnetica dalle sue capacità grafiche. Ha un gusto per l'ironia sottile, per voler mettere educatamente in ridicolo la corsa al modello occidentale. Gli status symbol quali il domestico filippino, l'ossessione per la chirurgia estetica femminile che alla fine ha l'effetto paradossale di produrre tanti cloni, tanti modelli uniformati a una sorta di ideale stereotipato. Ogni fenomeno massificato viene irriso con garbo. Dalla corsa allo spam natalizio su Facebook alle signore bene che chiacchierano dal parrucchiere. E ci sono anche richiami alla sua vita personale, all'inizio del suo nuovo lavoro, alle sue paranoie (esilarante la sequenza di vignette sugli antifurti delle auto di notte). 

E' un blog che invita alla risata intelligente e ha una veste grafica davvero notevole (è il suo lavoro). Mi è piaciuto un sacco il Zankoulizer, una app che permette di comporre il proprio avatar utilizzando i suoi disegni (capelli, viso, bocca). In plain words: ci sa fare!

Ho provato e riprovato a cucirle addosso un paragone, per curiosità mia. Come atmosfere, come essenzialità dei tratti può evocare Persepolis. Ma Marjane Satrapi racconta altri tipi di storie, ci fa pensare, ridere e commuovere insieme e fa un uso magistrale del bianco e nero. Mentre Maya ha sì un tratto essenziale ma usa i colori, sebbene in modo discreto. Il bianco e nero di Persepolis secondo me spesso è proprio un campanello semantico, mentre su Amalgama tutto è molto più semplice senza essere scontato. Un tipo di intelligenza pronta e sintetica. Respect.

Insomma alla fine Maya ha trovato il modo di usare al meglio il suo talento e riesce a viverci sopra e sta diventando (con merito) una graphic artist riconosciuta. Le ho chiesto il permesso di utilizzare una delle sue immagini per accompagnare questo post e mi ha risposto in maniera gentilissima nell'arco di poche ore :)

Un consiglio: prendetevi una mezz'ora e usatela per vedervi il suo blog: mayazankoul.com.
E' un po' come aprire la finestra e fare entrare aria nuova.



mercoledì 9 novembre 2011

Copycats

Menia si preoccupa dei problemi del paese
La definizione italiano medio mi ha sempre dato un solenne fastidio. Come ogni generalizzazione. Ma come in questi giorni sta emergendo in maniera drammatica, la differenza tra medio e mediocre è davvero sottile. Perchè? Perchè è più facile dire lo faccio domani oppure lo fa lui, è più facile metter su chili che dimagrire, oppure dimagrire con aiuti chimici piuttosto che con abitudini sane ma faticose.

Adesso siamo davanti a un problema che è diventato ineludibile. Chi siamo, ci siamo meritati quello che sta per succedere? Siamo preparati ad evitarlo, o nel caso peggiore a rialzarci? Se ragioniamo sull'elegante assunzione che in una democrazia è la parte migliore del paese che deve rappresentare tutti nell'interesse comune, e guardiamo l'occhio spento del tizio che a Montecitorio gioca con l'iPad durante una seduta di lavori, la sensazione che emerge è che siamo messi male. Veramente male. Cercando in rete "Menia Ipad" viene fuori il primo lombrosian movie della storia. Prima la faccia dell'onorevole che pare infastidito dall'essere stato preso con le mani nel sacco, poi un tentativo veramente tragicomico di impedire al giornalista di fotografare la cosa. Ma invano.

Questi sono quelli che ci rappresentano, che piaccia o no. E il discorso, lungi da me qualsiasi tentazione di parlare di casta o di fare grillismo un tanto al chilo, purtroppo riguarda i nostri fondamentali. E' più comodo guardare le figure che leggere, chiaro. Anche sulle modalità di fruizione delle informazioni, se è vero che la maggioranza delle decisioni elettorali è guidato dalla televisione, otteniamo un quadro coerente. La televisione ti vuole lì, fermo e coglione. La rete ti vuole partecipe e selettore. E le notizie che trovi devi leggerle per capirle. E pesarle con altre, per vederne l'attendibilità.

Ma siamo italiani. Se a scuola copi un compito in classe sei furbo, hai ottenuto il massimo risultato col minimo sforzo. Se ti prendono a copiare un elaborato scritto in un paese che abbia fondamentali sani, fai una figura di merda di portata generazionale. In Germania un ministro è stato fatto dimettere per aver acquistato una tesi già fatta. In Italia il ministro della pubblica istruzione ha avallato un comunicato che parla di un tunnel per i neutrini tra il CERN e il Gran Sasso...

Nella mia vita studentesca, costellata per necessità universitarie di innumerevoli prove scritte, qualche cosa l'ho capita. Se non hai studiato, se non ti sei impegnato, se sei un mediocre, tu puoi copiare un numero di volte indeterminato. Il momento della verità arriva. Il momento in cui non sai da chi o da dove copiare arriva, e lì si vede chi sei o chi non sei. L'Italia in questo momento non ha più a chi delegare, o qualcuno che le passi un ipotetico compito risolto. E ora siamo nelle mani di una classe politica inqualificabile a tutto tondo, in una classe imprenditoriale per lo meno discutibile, in decine di interessi e di particolarismi reciprocamente conflittuali. Ognuno pretende di guarire con un bicchiere d'acqua quando ci stanno per imporre una chemio per motivi oggettivi e non dipendenti solo da noi. In una prova veramente difficile ci presentiamo con una inadeguatezza culturale che per la classe politica, ormai, ha un consolidato ventennale. B è la punta dell'iceberg. Ha la colpa imperdonabile di aver identificato gli interessi del paese con i suoi, checchè ne pensino i suoi house organ che identificano il bene con lui e il male col resto dell'universo.

Temo che la portata della sberla che sta per arrivare su questo disorganizzato paese non passerà in poco tempo. E nessuno ti passa quel compito, mi pare chiaro.

giovedì 20 ottobre 2011

Just win, baby

Ricordo di Al Davis (1929-2011)

Come vuole il passare del tempo, anche persone che per noi sono solo una immagine irraggiungibile prima o poi ci lasciano. Chi era Al Davis? Al Davis era gli Oakland Raiders. Lui, la sua filosofia ormai superata al punto tale da risultare romantica. Allenatore prima, general manager poi, fino ad essere l'unico vero executive degli Oakland Raiders. 

Personaggino non da poco, il vecchio Al. Il primo a spostare la squadra da una città all'altra nel football dell'era moderna, facendo incavolare non poco il commissioner Pete Rozelle. Semplicemente per ritornare nuovamente da Los Angeles a Oakland qualche anno dopo. Business is business.

Ma Davis era anche una idea di football. Il football negli anni si è evoluto secondo le linee dettate dalle grandi squadre. Vista la precarietà delle carriere dei giocatori, molto spesso si identificavano le squadre con gli allenatori. I Green Bay Packers con il cuore di Vince Lombardi, i Miami Dolphins con lo stile di Don Shula, i Dallas Cowboys con il cappello di Tom Landry, gli Steelers con la flemma da invincibile di Chuck Noll (fermiamoci al precambriano...).

E i Raiders? 
Vinsero tre campionati con ottimi allenatori.
John Madden, vera e propria icona del football anni Settanta, la cui legacy ormai è praticamente immortale grazie anche ai videogiochi e alle sue leggendarie telecronache infarcite di Maddenisms (The Hokey Pokey!)
Tom Flores, imperturbabile come la propria pettinatura, con un bel sorriso latino e due Lombardi Trophy in bacheca.

Ma i Raiders sono sempre stati la squadra di Al Davis. Nome e cognome, per non sbagliare. Il suo concetto di football era così facile. Le corse? A big guy running behind bigger guys blocking. I lanci? Si, certo. Sopra le cinquanta yards vanno bene. Per meno stiamo perdendo tempo.
Nomi e soprannomi che nel tempo ci hanno fatto amare, odiare e rispettare i predoni, e che erano puro riflesso dell'idea di football di Al Davis. The Snake and the Ghost non erano due banditi, ma un quarterback (Ken Stabler) e un tight end (Dave Casper). Per il big play quasi eletto a filosofia di vita servono ricevitori di un certo tipo. Fred Biletnikoff e Cliff Branch. E nell'era moderna un Tim Brown.

Gli assassini, quelli veri, erano in difesa, dove si preferiva gente da foto segnaletica.
Jack Tatum, se dobbiamo fare un nome solo. Ma mettiamoci anche Willie Brown, George Atkinson, personcine come Lyle Alzado, e fior di giocatori quali Lester The Molester Hayes, Howie Long, Rod Martin, Matt Millen, Mike Haynes e chissà quanti fuoriclasse sto scordando.

Il tempo ovviamente cominciava a piegare la sua idea di football. E lui non era uno stupido. Ok, si lancia anche corto. Ma non troppe altre concessioni. E l'allenatore sempre e comunque deve confrontarsi con la sua filosofia.

Un look immutabile, il Silverblack con cui in tutto il mondo si identifica la Raider Nation, indiscutibilmente la tifoseria sportiva più strana sulla faccia della terra. Dallo scimmione a Darth Fener, fino al crociato londinese.

Come disse Benigni in morte di Federico Fellini, in questi casi non sai come regolarti. E' come se ti dicessero che è morto il sale, o è morta l'insalata. Non ti capaciti, manca un riferimento. Non ha senso parlare del football o della NFL prima o dopo Al Davis, ma ovviamente per i Raiders fa tutta la differenza del mondo. E ci stanno mettendo l'anima, perchè il vecchiaccio riduceva tutto ad un concetto molto semplice:

Just win, baby.

Ci mancherà.
Qui un bel post scritto da M, amico e tifoso Raiders certificabile tramite foto con drappo :)
E poi, postilla per pochissimi: sì, era fambol.


John Madden, Al Davis e il Vince Lombardi Trophy

mercoledì 19 ottobre 2011

Sommergibilità cinematografara

"Condizione 1 Sierra Quebec per lancio sistemi d'arma..."
"Anatroccoli, in Russia ci sono dei problemi. E hanno chiamato noi. E noi tutti andremo, portandoci la più letale macchina da guerra mai costruita."

E' l'incipit del discorso del comandante Ramsey all'equipaggio dell'USS Alabama, prima di iniziare la missione per calmare un po' un ipotetico leader ultranazionalista russo, con un ideale di fondo e seri problemi emorroidari, come preannunciato nel breefing. 

Crimson Tide è uno dei submarine-movie che mi piacciono di più. L'ignoranzità italiotica traduce il titolo con un insignificante "Allarme rosso". Cerco di spiegare al genio che ha tradotto così. Il sommergibile del film si chiama Alabama. Le squadre dell'omonimo college hanno il nickname Crimson Tide, letteralmente Marea Rossa, per il colore delle uniformi di gioco. Nessun richiamo di altra natura, meno che mai politica.

I film di guerra con i sommergibili mi piacciono, magari senza un perchè. C'è quasi sempre un dualismo tra un comandante carogna ma capace, come Gene Hackman in Crimson Tide e Harrison Ford in K-19 e un secondo brillante e umano (Denzel Washington nel primo caso, Liam Neeson nel secondo). L'unico equipaggio in armonia con la vita è quello dell'Ottobre Rosso, per l'accattivante promessa di Sean Connery di portare i ragazzi a socializzare un po' a Cuba. Lì il commissario politico era un po' troppo zelante, ma il tè gli va di traverso, per così dire.

Mi piacciono le ambientazioni, gli effetti, il climax che si crea nelle storie. Uomini che vivono sotto pressione, esposti a condizioni e pericoli dai quali, in sostanza, non esiste via d'uscita. Le trame di questi film non sono gran che sconvolgenti. Il bene, di solito a stelle e strisce. Il male, con altre connotazioni. I banchetti in mensa ufficiali, in cui nessuno si può incazzare col graduato perchè fuma il sigaro in ambiente chiuso. 
Gli imprevisti a bordo, in effetti, sono appena critici. Un reattore surriscaldato, una propulsione guasta, la radio che tronca a metà un messaggio di conferma (o annullamento?) lancio missili strategici. Non è che bucano una gomma, accostano e cambiano.

Resto sempre tra l'imbambolato e l'inebetito dalle manovre di immersione, dall'uscita d'aria dalle casse zavorra di queste enormi balene metalliche (piccola nota... in ogni manovra di discesa della USS Alabama l'inquadratura della mano del timoniere è sempre la stessa, eppure non è che hanno risparmiato, su...). E poi le scene di combattimento, la procedura di armo dei siluri, il lancio dei congegni di inganno, il dramma quando gli addetti alla strumentazione annunciano velocità del siluro e distanza all'impatto (poi le distanze in yards mi suonano così familiari...)

Tre film stupendi, per chi si volesse avvicinare al genere. Tutti famosi.

Crimson Tide, appunto, dove comandante e secondo si scontrano sulla validazione di un ordine di lancio di missili a testata nucleare, con il gruppo dei graduati in crisi. Una specie di ammutinamento e contro-ammutinamento in una situazione di defcon 2. Risolta da gentiluomini, alla fine. Hackman e Washington bravissimi.

K-19. Sommergibile russo negli anni 60, assemblato con le puntine, che deve lanciare un missile di prova in condizioni ambientali estreme. Problemi di vario ordine, e il reattore che rischia di combinare un bel casino. Ispirato ad una storia vera.

Caccia a Ottobre Rosso. Comandante veterano a cui viene affidato un mostro non tracciabile dai sonar, potenzialmente in grado di fare danni veri. Il comandante decide che non ne vale la pena, e all'insaputa dell'equipaggio (ma non dello staff di ufficiali) decide di disertare. A Mosca non la prendono bene. Forse il migliore come effetti. E uno Sean Connery maestoso.

E alla chiosa del bastardissimo comandante Ramsey "Siamo qui per preservare la democrazia, non per praticarla", immancabilmente mi abbiocco come una creatura e fine della proiezione :)


giovedì 6 ottobre 2011

Ciao Steve

Steve Jobs (1955-2011)
Parlo da utente. La mia piccola storia con la visione che Steve Jobs aveva della tecnologia inizia qualche anno fa.

Cavolo, un po' più di qualche.

A casa di J, mio vicino di banco del liceo. Metà anni ottanta. Avevo quasi lo stesso numero di capelli del tipo in foto. A casa di J, dicevo, per me c'era una anteprima di America. C'era sua mamma che mi ha regalato annate intere di Sports Illustrated. C'era B, suo fratello, che mi ha mostrato il casco da gioco originale dei Miami Dolphins, facendomi capire per la prima volta l'intimo significato della parola invidia. Anche perchè, visto l'ingombro della mia scatola cranica, nemmeno sono riuscito a indossarlo. E c'era uno scatolone di plastica rigida biancastra. Un design che per l'epoca poteva dirsi austero. Qualche occasionale bip che usciva da un altoparlante. Che cosa ci facevamo? Ci giocavamo a Julius Erving and Larry Bird go one on one. In due, ai due estremi della tastiera. Un giochino di una marca sconosciuta. EA Sports. Lo scatolone aveva sopra una etichetta, Apple 2e. Cavolo, leggeva dai floppy da cinquenquarto. Io avevo il Commodore, che leggeva dal registratore a cassette, che ogni dieci giorni stavi là a litigare con l'azimut della testina altrimenti non avevi più dispositivi di input al di fuori di te stesso.

Sempre al liceo, qualche anno dopo. A casa di V, uno dei primissimi Mac. All'epoca dovevi dire MacIntosh, per esteso. Concetti assurdi, per un commodoriano a riga di comando come me. L'interfaccia grafica? Il mouse? No, troppo oltre, troppo. Ho capito anche per quale motivo oggi i notiziari più attenti ci hanno tenuto a dire che la svolta della vita di Jobs è stato il corso di calligrafia. Eleganza. Il termine è sufficiente a se stesso. Quei caratteri a spaziatura variabile, quel modo di vedere sullo schermo quello che non riuscivi a credere possibile. Per te, comune mortale, la p minuscola e la T maiuscola non avevano necessità di tutto sto studio, su. Con quel prodigio a metà fra tecnica e arte facemmo uno degli scherzi più spettacolari del periodo liceale. Usando un programma di editing fantastico, confezionammo degli appunti di storia dell'arte perfetti per convincere la povera B, reduce da una brutta influenza, dell'esistenza di un insidiosissimo Buontempo da Todi, che sarà stato pure un minore, ma il suo stile nella riproduzione del panneggio influenzò perfino Masaccio e la sua Madonna del Petrolio è in mostra tuttora al MoMa (!).

Salto di tanti anni. Vedevo tutte ste iThings fare vetrine in posti messi su con buon gusto. Sostanza? Boh, ero perplesso. Si, saranno anche belle frocerie, ma costano, eppoi? Vedevo qualche MacBook, carini, si ma...

Autunno 2007. Comincio a capire qualcosa. Il mio viaggio a Dallas. D e T che estasiati si comprano l'iPhone al locale Applestore. Io mi ritenevo più strutturalista che esteta (non so che vuol dire ma ho sonno...). Mi limitai a regalarmi un iPod Touch. Carino. Io ero un sempliciotto, uno da Walkman. Ma rimasi estasiato dalla facilità di utilizzo, dall'intuitività. Dalle prime app per vedermi in diretta i risultati delle partite di football. Dal libero accesso alla rete. Dal poter scrivere alla mia storica amica-di-email seduto su una panchina in un museo di arte che esponeva dei disegni di Phil Collins... Ovviamente ce l'ho ancora, il mio iPod.
Il ritorno in ufficio, con uno scatolone con un MacBookPro che era sul mio tavolo. Una ergonomia e una utilizzabilità talmente perfette che non ho mai, mai avuto bisogno di collegare un mouse. Semplicità: uno spazio piatto e le dita. Adoro quel notebook, mi piace quell'approccio al sistema operativo, così grafico ma così Unix.

Ciao Steve, per fortuna tua e nostra non sei nato in Italia. Le tue idee sarebbero state calpestate perchè non eri figlio di, amico di, servo di.

"Non c'è ragione per non seguire il vostro cuore"

Mistero

...caro il mio ragioniere
I tre gangster.
L'assemblaggio del fucile di precisione concluso con "Tenere lontano dalla portata dei bambini".
Il paradiso della brugola.
Con trentamila lire il mio falegname la fa meglio.
Ma allora sei bastardo. E pignolo!
Lo scherzo del libro sfigato all'autogrill.
La tragedia del povero Ringhio.
Luci a San Siro e soprattutto Ridi pagliaccio.
E' soltanto un rumorino. Da niente.
Il tamponamento del destino.
Biglietto Amaro, con la fuga di Aieie dal controllore.
La colica renale. Il professorone di stirpe.
Il pigiama con la maglia di Sforza, perchè quella di Ronaldo era finita.
La telefonata con Cecconi, che è a cena al Gambrinus.
L'inganno della cadrega ("Ches chi, l'è un terùn"... Applausi).
Il lancio della ruota di scorta in acqua.
La partita a calcio in spiaggia, con la gamba che fa il palo, Vinicio Capossela in sottofondo.
Aldo che sbuca dalla sabbia e segna di testa.
Se uno si ostina a tenere la difesa alta, per forza quelli segnano.
Il blitz di notte con le maschere di Pertini, Cossiga, Scalfaro e Nilde Iotti.
Uno che si chiama Poretti Giacomino ed è nato a Busto Garolfo dovrebbe avere il buon gusto di tacere.
La telefonata. Vaffangulo! Vaf-fan-gu-lo. Vi-a-effe-effe-nguuuloooo!
L'amore dà, l'amore toglie.
Cecconi col frac e il fucile.
La gamba in mezzo a una nuvola di polvere.

Mi dite per quale motivo questo film non ha vinto un Oscar, per favore? :)

mercoledì 5 ottobre 2011

Gli articoli dell'Economist

Ride...
Nel numero di metà giugno, The Economist fa una impietosa radiografia di quello che sta succedendo in questo paese grazie all'infaticabile prodigarsi della nostra classe dirigente, vai a capire perchè identificata con la paterna e rassicurante figura riportata nella foto a fianco. 

E' necessario chiarire bene che tipo di giornale sia The Economist. Prima di tutto non si occupa solo di politica. Nè solo di economia o solo di finanza. E' voce autorevolissima di un contesto interdisciplinare che parla di mercati, ma anche di tecnologie, di diritti, di cultura. Insomma, non è house organ di nessuno. Si avvale di un nucleo di giornalisti propri, con la collaborazione di personalità del mondo accademico e imprenditoriale di autorevolezza riconosciuta. In sintesi, non cercate su The Economist le firme di chi scrive sui giornali che in Italia titolano in stampatello maiuscolo, restereste delusi.

La storia d'amore fra questo giornale e il presidente del consiglio è quasi decennale. Partendo dal 2001 ("Why Berlusconi is unfit to lead Italy"), rinfrescando periodicamente la memoria a chi mastica un po' di inglese, fino ad arrivare all'ultimo insieme di articoli, che dipingono in maniera decisamente ben argomentata cosa stava per succedere in questo paese, con un velato indizio su chi è a loro avviso responsabile di questo ("The man who screwed an entire country", non serve tradurre). 
Gli articoli sull'Italia spaziano su economia, finanza, diritti e accoglienza, istituzioni, sistema formativo. L'analisi è precisa, spesso un po' impietosa ma secondo me si tratta di articoli che vanno letti e capiti. Per il semplice fatto che danno una percezione reale di come questo paese è visto in certi contesti, a prescindere dalle risse da bar di un buon 50% di quanto si trova sulla stampa italiana. 

Ma il primo articolo è un sommario decisamente espressivo su chi ha governato questo paese per gran parte degli ultimi diciassette anni. La sintesi presentata è una stroncatura del personaggio senza se e senza ma. Passi per la sua condotta personale, per così dire, che già da sola squalifica la rispettabilità della persona e della carica istituzionale anche in assenza di verdetti ufficiali. Altro asse portante dei suoi trionfi è tutto l'insieme di incriminazioni per corruzione, falso in bilancio, frodi fiscali. A prescindere dai pareri dei giornalisti di proprietà, ragioniamo semplicemente con un utile esercizio di traduzione:  

"His defenders claim that he has never been convicted, but this is untrue. Several cases have seen convictions, only for them to be set aside because the convoluted proceedings led to trials being timed out by a statute of limitations—at least twice because Mr Berlusconi himself changed the law. That was why this newspaper argued in April 2001 that he was unfit to lead Italy."

"I suoi difensori affermano che non è mai stato condannato, ma questo non è vero. Ci sono stati casi conclusi con condanne, che poi sono stati messi da parte perchè i procedimenti correlati terminavano in prescrizione. Almeno due volte perchè lo stesso Berlusconi ha cambiato le leggi. Per questo motivo, nell'aprile 2001 questo giornale disse che Berlusconi non è adatto a guidare l'Italia".

Il terzo e più grave appunto mosso alla guida del paese è relativo al più totale disinteresse mostrato fino a quel momento nei riguardi dell'andamento dell'economia del paese, magari a causa dei propri rilevanti problemi legali. C'è ricchezza privata, ma i fondamentali non sono per niente solidi (...ho come l'impressione che qualcuno stia cominciando ad accorgersene). Chi è alla guida del paese non ha mai avuto interesse ad analizzare e meno che mai a valutare delle contromisure per un sistema ritenuto a prova di tutto, per evidenti motivi di propaganda e di consenso. 

Lo stato comatoso del sistema Italia appare nel confronto con le altre economie: quando c'è una contrazione, l'Italia va peggio. Quando c'è una ripresa, l'Italia riprende meno. 
Secondo l'Economist, una fase di crisi di questo tipo terminerà, prima o poi, fornendo nuovi spunti e opportunità di crescita e diversificazione per molte economie, anche fra quelle impattate. Non per l'Italia, la cui classe politica pare non essere interessata ad uscire da una comoda e perenne stagnazione, con un debito alle soglie dell'ingestibilità, fanalino di coda della zona euro. 
Un giorno forse si capirà che l'autoproclamato miglior premier degli ultimi centocinquanta anni ha fatto più danni di una guerra. Per l'economia, per la coesione sociale sgretolata con modelli sbagliati, per aver fatto passare con arroganza l'idea che tutto è come i telefilm con le risate preregistrate in sottofondo con cui ha coltivato una robusta parte del suo elettorato.

"As a result, he will leave behind him a country in dire straits."
No, non stanno parlando di Mark Knopfler.

Il tutto chiuso con un "senza dubbio starà ancora ridendo".

giovedì 22 settembre 2011

Giornalisti e giornalismi

Giuseppe D'Avanzo (1953-2011)
Il 30 luglio di quest'anno ci ha lasciato Giuseppe D'Avanzo. La definizione più logica che mi viene è quella di giornalista vero. D'Avanzo era il tipo di professionista che ispirava il suo lavoro, il suo modo di fare cronaca, al normalissimo credo di un giornalismo vero. Fatti. Evidenze. Che cosa, chi, come, dove, quando. Non era assorbito cuore e midollo nelle vicende che raccontava, non era troppo avvezzo alle considerazioni di carattere personale, come poteva esserlo una Anna Politkovskaja, con le dovute differenze di contesto. D'Avanzo ragionava semplicemente sul fatto che ogni sua riga, alla luce dei fatti, era inattaccabile. Giornalisti come lui in Italia non se ne vedono molti. Chi fa inchiesta e con un minimo di approfondimento oggi deve essere più che mai consapevole che si espone alle ire e alla potenza di fuoco di chi viene messo sotto l'occhio del pubblico e non lo gradisce. Penso a Milena Gabanelli. In un certo senso anche a Marco Travaglio, ormai diventato un po' troppo personaggio ma mai smentito su una riga di quello che ha scritto, financo nelle sedi legali dove viene trascinato con solerte regolarità da più parti.

Giornalista vero in effetti parrebbe una tautologia, vista così. Cerco di connotare meglio. 

Chi non era Giuseppe D'Avanzo? 
Chi non è un giornalista vero, a prescindere da incarichi, qualifiche, esposizione giornalistica e mediatica?

Mi faccio aiutare dal post di un amico, dal titolo eloquente di "Chi tocca muore", la cui lettura è vivamente consigliata. D'Avanzo non era un organico a quel simpatico gruppo che, parafrasando l'ottimo Saviano, mi viene da definire come "la macchina della bava". Persone interne a house organ, televisioni e altro che in nome del pensiero unico ultimamente non devono neppure essere istruiti. Ormai sono più silvisti del re stesso. E' istruttivo condurre un minimo di analisi sui due più rodati dispositivi sparabava su carta: i due cloni che si passano periodicamente direttori, redattori e quant'altro. Fa quasi simpatia vedere come parlino loro della parzialità degli altri. E' sufficiente il titolo di prima pagina: è rigorosamente scritto tutto in maiuscolo (Denis Mack Smith osserverebbe che questa era una abitudine tutta mussoliniana), è volutamente ellittico ma credo più per oggettiva povertà di idee che per eleganza stilistica, ed è immancabilmente quello che mi mette voglia, ogni benedetta mattina che incappo nella rassegna stampa, di incontrare questi signori e di metterla proprio sul fisico. 

C'è un modo di procedere quasi algoritmico, che ha trovato una sorta di codifica con il cosiddetto metodo Boffo. Anche usando notizie inventate di sana pianta, viene distrutto con buona sistematicità chiunque entri nel loro mirino. Che poi alla luce dei fatti si tratti di notizie inconsistenti diventa marginale. Tre righe di scuse vicino ai necrologi. Metodo poi riutilizzato con la casa di Montecarlo, vicenda che ha generato una pletora di articoli che avevano già incartato le uova al mercato ancora prima di essere dati alle stampe. 

La nota ovviamente implicita è che tutto quello che fa il padrone è sacro e giusto. Anche quando, come da troppo tempo a questa parte, il padrone è indifendibile. Mi sembra che questi signori, di fronte a un tumore che sta devastando un corpo a livelli quasi non più recuperabili, fissino pervicacemente la loro attenzione su quel fastidioso problema al menisco, ignorando le metastasi in circolo.

Tra l'altro ho l'idea che i due giornali grondanti abbiano in comune anche il titolista. Ultimamente però li ho visti un po' distratti. Tre o quattro giorni fa, in occasione della notizia del downgrade che S&P ha dato al debito italiano (titolo che occupava la prima pagina anche della rosea, praticamente), gli sparabava erano concentratissimi sui magistrati che osavano disturbare la mutanda presidenziale. Si sono dimenticati di insultare la presidentessa di Confindustria che aveva espresso un parere abbastanza netto sull'operato del governo, evidentemente. Almeno almeno un "BRUTTA TROIA" in prima pagina su uno dei due me lo aspettavo. Mi hanno deluso.

Ecco. D'Avanzo non era uno di questi. Mi permetto di consigliare "Inchiesta sul potere", che illustra come funzionano un po' di meccanismi, basandosi semplicemente sulle evidenze.

venerdì 16 settembre 2011

Casi umani

Io non ce l'ho con lui, ma col tranviere...
Uno dei personaggi che sporadicamente rallegra il grigiume quotidiano di questo paese intristito è sicuramente il proprietario della sobria utilitaria ritratta in figura. Un bel nome che sa di Toscana dei Comuni, Lapo. Rampollo di una di quelle famiglie che in Italia ha sempre fatto parlare di se, ogni tanto anche in positivo, detto col massimo rispetto. Solo che in ogni famiglia che si rispetti qualcuno che sia un po' fuori dagli schemi ci sta sempre. 

C'è un bel concorso di idee per definire il tipo. Uno dei più fulgidi esempi, insieme al consigliere Trota, di braccia indegnamente sottratte alla pur utile arte dello sciampismo. Andrebbero messi vicini, nello stesso banco dell'auletta del Cepu, per vedere il curioso gioco di luce fatto dal raggio di sole che entrando dall'orecchio destro del primo esce dall'orecchio sinistro del secondo senza trovare il men che minimo ostacolo nel cammino. Nota a margine: uno siede nel CdA di una delle maggiori industrie italiane, l'altro è consigliere regionale all'età di venti anni. Per favore ricordatemi di andarmi a comprare Familismo amorale di Edward Banfield.

Ma ritorniamo al conducente di carri armati. Mi trovo in palese disaccordo col tranviere. Non avrei frenato. A prescindere dal lignaggio del proprietario di quell'obbrobrio a quattro ruote motrici, avrei tranquillamente proseguito come se nulla fosse. Le rotaie devono essere libere. Poi scendevo, chiamavo qualche ghisa, gli facevo constatare con calma tutte le violazioni al codice, l'interruzione di pubblico servizio, lo zuccotto di lana calato in testa a mo' di profilattico (lo ammetto, questa era facile). Tanto i soldi per lui non sono un problema, quindi oltre alle poche centinaia di euro di multa anche la distruzione del veicolo non lo avrebbe traumatizzato più di tanto. 

Va riconosciuto che quest'essere ha raggiunto una costanza di rendimento invidiabile. Periodicamente ricorda all'Italia e al mondo che di idioti ce ne sono, ma che lui li prende di tacco tutti indistintamente. Oltre ad avere dato intralcio ai poveri comuni mortali del tram milanese, nel tempo si è segnalato per le seguenti due perle maggiori:

  • In allegra e colorita compagnia, mentre era impegnato ad acciuffare colli di papero (Z, grazie di esistere!) si è bevuto troppa coca. E nemmeno della migliore, che magari era andato al risparmio. Ambulanza, ospedale, silenzio imbarazzato della famiglia. Noi normali s'è smesso di ridere due settimane dopo...
  • Durante Raptors vs Lakers il nostro eroe segnala il suo dividendo di intelligenza ostacolando un giocatore che tentava di recuperare palla. Il giocatore lo ha classificato solo con lo sguardo, purtroppo. Certo però che alle partite di basket fanno entrare proprio tutti

Senza voler infierire (ma solo per amor di sintesi) su una lunga serie di congiuntivi sassoni, di dichiarazioni sconclusionate anche in occasioni istituzionali, di ragionamenti fluidi come la linea di una Duna, di pure esibizioni di imbecillità nuda e cruda.

Non mi va nemmeno di mettere la foto del tizio. Servirebbe solo a rafforzare la mia convinzione che Lombroso è stato molto sottovalutato nel tempo.

mercoledì 7 settembre 2011

The art of quarterbacking - Peyton Manning

Sta solo cambiando uno schema...

Non deve essere facile essere Peyton Manning.
Quattro volte miglior giocatore della lega, un Superbowl vinto, uno perso. Quattordici anni di leadership indiscussa. Raramente una squadra è stata identificata in maniera così netta con un giocatore. Proprio questa è una delle definizioni più dirette di "miglior giocatore": togliere Manning ai Colts e vedere che cosa accade.

Secondo me il miglior QB dell'ultimo decennio è lui. Qui scattano i puristi delle cifre, che fanno notare che Brady di qua, Brady di là. Non si può chiedere a uno che tifa per i Dolphins di celebrare Brady. Brady ha il super attacco, la linea dei barbuti, i ricevitori forti, la super difesa, il tizio in felpa a bordo campo. Quella lì in tribuna che tifa. Così è facile.

Manning no. Lui non è aiutato dagli allenatori o dal sistema. Lui è il sistema. Basta vedere cosa accade a bordo campo quando succede qualcosa di sbagliato in attacco. Solitamente il capo allenatore o l'offensive coordinator parlano con il quarterback, cercano di capire cosa non è andato, leggono le foto inviate dagli assistenti in tribuna. Lui no. Si isola da tutti. Resta un po' a pensarci. Verrebbe da dire che reingegnerizza il tutto. Poi va dall'allenatore, spiega cosa è successo e come ci si regolerà in seguito. Succedeva con Tony Dungy, che era un buon allenatore. Succede con Jim Caldwell, che secondo me non lo è. E poi basta vederlo in azione. No huddle. Sistema i compagni, chiama lo schema, un difensore reagisce, cambia lo schema. Un misto fra un condottiero e un direttore d'orchestra, perchè va anche detto che non recita malissimo.

Un grande. Personaggio idolatrato dalla comunità e dai media. Sovraesposto, sicuramente. Ma che riesce a non perdere mai il focus su quello che deve fare. Semplicemente perchè è un predestinato vero, secondo me.
Figlio di un grandissimo quarterback, Archie Manning. Fratello di un grande quarterback, Eli Manning. L'aneddotica su di lui è sterminata. Raccontava Roberto Gotta che al primo giorno di college, tutti gli allenatori si videro costretti a tornare sui libri per rispondere alle domande poste dal freshman...

Un perfezionista in tutto e per tutto. Davvero, quando chiama lo schema si ha l'impressione che sia inclusa la pettinatura della signora in seconda fila e l'aggiornamento del software del palmare del tizio a fianco. Ma anche per questo, ammirazione e rispetto. Uno che ha una organizzazione mentale di quel tipo sa ciò che vuole e come ottenerlo.

Per non parlare del giocatore. Il braccio. La capacità di lettura. La leadership. E gli errori che te lo riportano a terra, fra gli umani.

E domenica prossima, per la prima volta in quattordici anni e 227 partite consecutive, ci sta che non ce la faccia a giocare per un problema al collo. Un grande in bocca al lupo, Peyton è una leggenda. E lo sa.

martedì 30 agosto 2011

Inimitabile

Una copia del 16 settembre 1978...modernariato!
Una delle poche istituzioni ormai degne di nota in questo scalcinato paese è la benemerita rivistina a fianco.

Cercando qua e là nelle ore troppo calde delle giornate estive, sono riuscito a mettere insieme tre numeri. 1978, 1993, 2009. Quasi equidistanti a botte di quindici anni l'uno.

La Settimana Enigmistica credo sia un concetto che ognuno di noi associa volentieri ad un po' di relax. Appunto, lo scenario ideale è il tipico momento troppo caldo di una giornata estiva, quello che a Napoli si indica in suprema sintesi come controra

E' carina, riconoscibile nel tempo, non ha mai cambiato il formato, dà quella bella idea di continuità di una cosa fatta bene. Barzellettine innocue (il tenero Giacomo...), mai una caduta di gusto, copre dalle curiosità spicciole all'erudizione di un certo livello, puoi cominciare da bambino appena scolarizzato e non mollarla più. Appunto, più una istituzione che un giornale.

I giochi di enigmistica tutto sommato non mi dispiacciono. Risolvere piccoli cifrari, crittografie, le parole crociate senza schema (toste) e quelle più semplici. Il corvo parlante, il quesito della Susi, tutte cose che stanno lì con una consuetudine che alla fine non può non essere quasi familiare.

Il modo di porre le cose poi è sempre caratteristico. Gli schemi destinati ai solutori più che abili, i giochi per i più piccoli, ogni cosa viene presentata all'insegna di educazione e buon gusto. Le definizioni..."Un celebre Mike del piccolo schermo". I venti piccoli particolari di "Aguzzate la vista", maledetti! Tutto un po' demodè, a volte, un po' passatista. Ma quasi confortevole, non mi viene altro.

E il contributo della famiglia Bartezzaghi, enigmisti di stirpe. Definizioni che a volte sono quasi delle mini-freddure, che richiedono anche di farsi una pensata in più. Ad onor del vero, gli schemi del padre, il sommo Piero sono molto più difficili di quelli del figlio Alessandro. Nel senso... senza Google c'è la concreta possibilità che sul vecchio Barte qualche casella bianca rimanga lì, beffarda e inamovibile. Col figlio per ora non mi è mai capitato.

E davvero, per tutti i gusti e per tutte le tasche, mi verrebbe da dire. Poco inclini a variazioni sul loro patrimonio ludico. Ultima concessione alle mode è stato il sudoku, inevitabile. Ma per anni (facendo il confronto fra vecchi numeri) il set di giochi proposti era quello, granitico e immutabile. E imbattibile, visto il numero di tentativi di imitazione  segnalato in copertina, unica concessione all'autocelebrazione.

In qualche momento di particolare tenacia mi sono anche buttato nei loro concorsi a premi.  Scrivere la soluzione su una cartolina postale bianca, quasi introvabile. Sperare nell'estrazione fortunata, anche solo della valigetta 24 ore, o di uno fra i 50 interessantissimi libri. Niente. Peccato.

Unica consolazione resta la soluzione a pagina 46 :)

venerdì 26 agosto 2011

Living in Rome...

Sto telefonino fa delle foto penose!
Per strano che possa sembrare, ogni tanto un semplice dato di fatto della propria quotidianità diventa un privilegio per pochi. Basta guardare un documento. Nato a. Residente in. 

E allora in una serata ci sta che decidi una uscita con uno dei tuoi migliori amici, magari approfittando del fatto che la città non è ancora piena, e ti butti in centro. E ti rimetti in pace col mondo per un po'.

Un condensato, senza nemmeno strafare (ok, s'è camminato). Parcheggiare verso piazza Fiume, approfittando del deserto agostano. Cena in una collaudatissima pizzeria a metà fra il mio liceo e via Veneto. Bella chiacchierata, conto, passeggiatona.

Via Veneto, appunto. "Namo a comprà le scarpe", avrebbe chiosato Mario Brega... ma poi pezzi di storia della dolce vita, l'edicola di Alberto Sordi ne Il conte Max, una bella libreria aperta alle dieci e passa di sera, persone sedute ai tavolini col sussiego imposto dalla location, in qualche caso anche graziosamente ridicole. E un Hard Rock Cafè. Una forzatura. Lì c'è anche la cripta dei Cappuccini, un po' inquietante. Da piazza Barberini ci buttiamo su via Sistina, più raccolta, più stretta. In chiusura di teatro, e non volendo fare caso ai due hotel celebri in tutto il mondo che sono lì, alla fine è un semplice passante verso uno dei punti di Roma più famosi nel mondo. La scalinata di Trinità dei Monti e Piazza di Spagna. Sospirone.

Luci, turistame, grumi di movida che non sfida il caldo più del necessario. Più che la scalinata il punto più ambito è qualsiasi posto a contatto con la Barcaccia, la fontana. 
Si rifletteva camminando con P sul fatto che un paese che potrebbe permettersi quel tipo di qualità di vita sia abbrutito, rinchiuso, incattivito, litigioso su ogni briciola. E che appunto questa città non è solo caos e code nel traffico, ma continua ad essere qualcosa di unico al mondo. Il tutto semplicemente constatando quello che avevamo a portata di vista. So easy.

E poi via Condotti, via del Corso, un taglio su via Vittoria, passando davanti a Santa Cecilia. E la scalinata di Trinità dei Monti stavolta a salire, con un po' di prosopopea in meno rispetto all'andata...

Il ritorno a specchio, ma contenti davvero della passeggiata in centro e dello spettacolo della nostra città. Era da tempo.
Magari dovrei guardare più spesso cosa c'è scritto sulla carta di identità, chissà! 
Love my hometown!

martedì 23 agosto 2011

"Classe" politica

Desideri reconditi...
In linea teorica non ho nulla contro la Lega.
Ognuno sta con le proprie idee, ognuno attribuisce priorità come ritiene più opportuno. Se non si trovano punti di incontro si resta con le proprie opinioni, altrimenti si può anche (tentare di) discutere.
Anche loro hanno dato e danno al paese uomini politici che fanno il loro. Pausa di riflessione. Sì, uno. Maroni.
Portano comunque spunti di discussione meritevoli di approfondimento e tutto sommato non nego loro un minimo di coerenza di fondo (eccezion fatta per l'associazione di idee "Trota-meritocrazia").

Cominciamo a mettere allora qualche paletto. 
Faccio un po' di fatica ad accettare la moda dell'insulto generalizzato, mi pare più sensato indicare la luna con l'indice piuttosto che con il medio, reputo bassamente offensivo definire carta igienica la bandiera di una nazione (per quanto controversa ed eterogenea possa essere) soprattutto quando in nome e per conto di tale bandiera ci si ingrassa anche in barba ai propri ideali. Certo, l'aver sdoganato l'insulto a tutto e tutti può ritorcersi, a volte. Lo statista in canottiera pare non aver ancora capito che il gergo da osteria usato a microfoni accesi nei riguardi del Santo Padre qualche effetto collaterale l'ha avuto, in verità. Con indiscusso beneficio della pavimentazione di casa sua, costantemente tirata a lucido. E ultimamente le parti più interessanti delle sue dichiarazioni sono le pernacchie. Non guardo troppo al politically correct se devo accettare le loro modalità di confronto, lo dico tranquillamente...

Ma il vero caso umano è il caratteristico individuo ritratto in figura. Farsi sospendere dalla Lega è un traguardo ambizioso. Ma non impossibile, a quanto pare. Va detto che lui si è impegnato con costanza e nel tempo è riuscito a dare il suo contributo ad una società multietnica e multiculturale, si è speso a difesa di chi fa fatica ad integrarsi.
Ultimamente poi si è guadagnato l'unanime nomina a massimo esponente del pensiero sfinterico. Infilare in due mesi l'elogio di Mladic e del pazzoide norvegese che ha fatto una carneficina non è da tutti, gliene va dato atto. Il tutto facendo anche la fatica di stare sulla stretta attualità, quando la notizia è ancora calda.
Questo signore, non reputo inutile sottolinearlo, percepisce uno stipendio da europarlamentare.
Certo, non appena hanno avuto la prova provata che tali esternazioni, oltre al normale impatto mediatico, provocavano anche robuste emorragie di consenso, i sei neuroni rintracciati nel partito dopo una colletta hanno ritenuto opportuno mettere temporaneamente in fermo l'eroe di cui in figura, che per un po' di tempo potrà continuare ad istoriare WC col semplice uso della parola solo in privato.
E mi sento di dire che sopporterò stoicamente questa impasse comunicativa.

Con un pensiero alle gloriose grisaglie democristiane della prima repubblica, che almeno non si prendevano a badilate di letame davanti a tutti, ma per il simpatico soggetto da osteria di cui sopra non posso, una volta di più, non aderire alla linea di pensiero dell'unico moderato rimasto in Italia, Cetto La Qualunque, il nostro solo faro.

Un garbato ntu culu non si nega a nessuno e aiuta a crescere.


martedì 12 luglio 2011

Like Milàn (Milano me piace)

Piazza Cinque Giornate
Non so dare una risposta razionale, ma Milano è il tipo di città che mi mette completamente a mio agio. Anche se non è la mia città, che è un po' più a sud, è un po' più grande ed è un po' più Roma, ma quando vado a Milano di solito c'è sempre un dettaglio che mi resta impresso e me la fa ricordare positivamente. Alla faccia di stereotipi e luoghi comuni, chiaro.

Ieri ho dovuto fare un blitz lavorativo intensissimo per vedere cose in posti diversi. E per un incastro di regole interne, per la prima volta ho avuto la necessità di muovermi a Milano in auto da solo. San Tommaso Doppio dei Navigatori obiettivamente è stato inappuntabile. La voce della signorina era perentoria."Ndo vai, alla rotonda a destra, occhio all'autovelox, non guidare come a casa tua che sei ospite, ecc ecc". Tant'è che, arrivato a Linate presto presto, sono riuscito a incastrare nella giornata un pranzo con una amica con annessa chiacchierata nel ristorante (poichè il poco tempo e soprattutto i quaranta gradi scoraggiavano ogni idea di passeggiatina digestiva). E dopo la seconda tappa lavorativa, sulla strada del ritorno, sono riuscito anche a passare a salutare G, amico come pochi. E ho visto un bellissimo esempio di edilizia urbana a misura d'uomo risalente intorno agli anni Sessanta. Gestione intelligente dell'energia, ambienti silenziosissimi con un bel po' di verde e di attenzione verso gli spazi e le strutture per i bambini, molto carino. A suo modo m'è parsa una reinterpretazione delle magnifiche case dei lotti della Garbatella a Roma, fatte le dovute proporzioni.

E appunto, grazie alla presenza del navigatore, mi sono calato in una città con ritmi e tempi diversi, quasi da turista anche se non lo ero, confidente nel fatto che tanto, pure impegnandomi, non potevo sbagliare strada (ahem, arrivate fino in fondo, va...). Guidare per il centro, Piazza delle Cinque Giornate, Corso 22 Marzo. Tutte strade con le loro regolarità, i loro colori, le loro geometrie. Mi ci sentivo bene in mezzo. Traffico ma non troppo.

Certo, qualche complicazione a questo quadretto idilliaco doveva pure esserci. Prima di riandare in aeroporto, passo a rifornire la vettura come da regolamento. Risalendo, vedo che il mio posto era occupato da una temutissima zanzara insubre che stazzava fra il chilo e il chilo e cento, e stiracchiava minacciosa i flap pronta al decollo. Forma aerodinamica, assetto da gara, quasi incurvata. A suo modo bella da vedere.
Le ho aperto il finestrino e le ho urbanamente favorito l'uscita. Ma gli è la natura, direbbe l'avvocato di Johnny Stecchino... Dove viceversa non gli è la natura, ma l'uomo, è in quello che mi è successo nel movimentato finale di giornata... Prendo il navigatore e imposto "Linate Aeroporto". Wow. Vai, destra, sinistra, rotonda, qui quo qua, sei arrivato.
Arrivato dove
Il congegno (peraltro promosso a pieni voti) aveva preso un po' troppo alla lettera la mia indicazione, e per lui la destinazione era il retro di Linate, proprio le piste di decollo e atterraggio degli aerei. Con il tempo che cominciava a non essere più alleato, mi sono vinto un giro nel traffico pomeridiano di Peschiera Borromeo, ameno comune a sud-est della metropoli, wikicontabilizzato a poco più di ventiquattromila anime,  come dire la curva Sud e un pezzetto di tribuna Tevere. Ma tutti motorizzati, e tutti su quella direttrice. 

Arrivo al parcheggio coi secondi contati, e sbrigo le mie pratiche con la signorina del noleggio che con calma veramente buddista mi congeda dopo le dovute formalità. Parto di corsa (si dice per convenzione) verso le partenze. Mi tocca pure la sfilatio della cinta dei pantaloni, cosa che non m'era capitata all'andata. Arrivo trafelatissimo e chiamato dall'altoparlante, che credo abbia sbagliato il cognome per disprezzo. Ma è andata, e continuo ad avere una bella idea di questa città e dei suoi abitanti.
Non ho potuto onorare la promessa che avevo fatto a me stesso... "Il primo che per strada mi suona usando esattamente la frase 'scendi dal pero', scendo e lo gonfio come una zampogna". Meglio così :)



giovedì 7 luglio 2011

Inti Illimani

Il primo concerto dal vivo a cui ho assistito è stato quello degli Inti Illimani al Teatro Tenda, vicino allo stadio. Non mi ricordo troppo le date, magari fra il 1975 e il 1977, boh.

Bambino tipico degli anni Settanta, sotto molti aspetti. Genitori da poco separati, il mio impagabile zio metalmeccanico con barba lunga ed eschimo che faceva i turni di notte in fabbrica e mi portava in Curva Sud la domenica, con il saccone della spazzatura anti-pioggia e i panini con la fettina.

A quel concerto andai, appunto, con mia mamma e mio zio. Fumo di sigarette ovunque, io col cappottino perchè faceva freddo, a cantare El Pueblo Unido storpiando le parole che non conoscevo, e col pugno sinistro chiuso come tutti, sotto al palco. A pochi metri da quei visi e da quei suoni così diversi, così caratteristici. Triple, charango, bombo. La musica che ti attraversa, ad un volume che per te è impensabile, quasi da giudizio universale. 
Da quel momento in poi mi è rimasto dentro un feeling tutto mio con suoni e testi del leggendario gruppo cileno. A casa c'erano tutti i loro dischi, tutti in vinile.

Racconto due cose su questo gruppo. Credo che ne valga la pena, almeno a mio giudizio. Gli Inti erano un gruppo già abbastanza noto. Durante gli anni Settanta erano in tournè, quando l'Undici Settembre 1973 un colpo di stato militare portò alla morte del presidente socialista Salvador Allende e all'instaurazione della dittatura del generale Augusto Pinochet. Il commento di Henry Kissinger fu un eloquente "Abbiamo semplicemente difeso gli interessi americani all'estero". 

Il gruppo si stabilì a Genzano, delizioso paesino dei Castelli Romani (pane e vino spettacolari!), perchè non potevano fare ritorno in patria per ovvi motivi. E portarono la loro musica in giro per l'Italia e per l'Europa. 
Una musica che dà sensazioni varie, non solo impegno politico e cuore. Ma anche il mercatino andino con le donne col viso screpolato dal sole e dall'altura, o semplici passaggi strumentali che ti invogliano a seguire i loro crescendo ritmati, o musiche che ti trasmettono quasi calura e stanchezza. Alla fine non hanno mai rinnegato sia le loro radici etniche che il carattere, in parte anche folcloristico, della loro musica, dei loro strumenti e delle loro tecniche. 

Fra tutte le varie prove che hanno fatto, voglio segnalare lo spettacolare omaggio al tema d'amore di Nuovo Cinema Paradiso (ehi, Morricone!) che non può non farci pensare ad ogni singola persona con cui abbiamo condiviso anche un solo momento da ricordare. 

E ogni tanto non resisto. In macchina, se mi capita di buttare quel cd nel lettore, tiro su i finestrini e canto a squarciagola!

E non posso non evidenziare una uscita di Beppe Grillo di uno squallore umano unico. Commentando la morte di Pinochet, con la solita finezza dialettica, si espresse nella forma e nella sostanza nei termini qui riportati

"Il suo delitto più grande è aver permesso la fuga in Italia degli Inti Illimani. Dal 1973 stazionano nelle nostre televisioni. Nelle feste dell’Unità. Da Pippo Baudo. Mi hanno fatto venire l’esaurimento nervoso. Sono dei reduci musicali a vita. La loro influenza politica è stata enorme. Spettacolo dopo spettacolo hanno esaltato ai nostri occhi l’operato di Pinochet. Creato una corrente giustificazionista per il regime. Per lo stadio-lager di Santiago."

Stranamente per una volta ha anche accettato il confronto e dato diritto di replica a Jorge Coulon.
Tenta di cavarsela con "ho fatto la battuta...".
"Jorge, io scherzavo. Sono un comico. So tutte le vostre canzoni a memoria.
Non sapevo che foste in Cile da 18 anni. Pensavo che foste ancora a Milano Marittima. La colpa è della televisione italiana che non aggiorna mai i programmi. Se tornate siete invitati a pranzo a casa mia. Ma senza chitarre. Perdonatemi se potete."

Gli Inti Illimani sono dei grandi. Artisti eccellenti e testimoni del loro tempo e del loro paese. Punto.




martedì 5 luglio 2011

Il secondo quarto

Nella vita di ognuno di noi deve essere un bel momento quello in cui stiamo dando tutto e ci accorgiamo che le cose si stanno mettendo nel modo giusto, che il destino sta per girare. In ogni contesto. Lavoro, amicizia, amore, sport. 
Quando ci troviamo davanti ad una serie di eventi positivi e i nostri sforzi continuano a generarne altri. Deve essere una bella sensazione. Sentire la vita che scorre bene dentro di noi, che stiamo costruendo qualche cosa di vero, che ci resterà per sempre.

Quello che ho scritto in maniera che non può che essere inadeguata, dovrebbe essere qualcosa di simile a quello che hanno provato i Green Bay Packers durante il Divisional Round a casa dei Falcons, top seed della NFC. I Packers erano arrivati ai playoff con l'ultimo treno utile, nel posticino di coda che prevede solo partite in trasferta verso la parte più ostica del tabellone. Erano comunque a pieno titolo nel gruppo delle squadre che nel campionato "vero" di gennaio-febbraio si giocano il titolo ed erano arrivati a quel punto nonostante un elevato numero di infortunati fra i titolari.

Riescono comunque a rovinare l'annata a Michael Vick, andando a vincere la wild card a casa dei Philadelphia Eagles. Ma il prossimo ostacolo sarebbero stati i Falcons. Matt Ryan, Michael Turner, Tony Gonzalez e una signora difesa. E un inquietante record di vittorie sotto la cupola del Georgia Dome. Quindi il pronostico appariva abbastanza chiaro. Bravi i Packers, belli da vedere, Rodgers è un fuoriclasse ma si fermeranno là. Questo si pensava.

La partita in effetti si mette proprio in quel modo. Il primo quarto parte con le due squadre che cercano di capire come sia attaccabile la difesa avversaria, in maniera abbastanza conservativa. Atlanta è in grado di controllare l'orologio avendo un runner come Michael Turner. Riesce a mettere su un drive sostenuto e colpisce per prima. Green Bay dimostra di sapere subito reagire e muovere la palla, chiudendo il primo quarto sotto di un touchdown e con il possesso. Rodgers ed i suoi terminano la serie nel modo giusto, con un touchdown di Jordy Nelson con dodici minuti e spicci sul cronometro alla fine del secondo quarto. Sette pari.

Da lì in poi si mette in moto quel meccanismo esaltante che ho cercato di spiegare all'inizio. Da lì in poi i Packers cominciano a rendersi conto di essere i Packers. E gli avvenimenti partono nella maniera più strana. Non c'è nemmeno il tempo di rallegrarsi per il pareggio che Eric Weems riporta il kickoff di Crosby direttamente in end zone dopo aver corso per 102 yards intoccato, evitando un paio di tentativi di placcaggio e poi lasciando semplicemente girare le gambe.

Prendere un touchdown in quel modo di solito taglia le gambe. Hai appena segnato. Magari sei in panca a gasare i ragazzi della difesa, ridateci quella cazzo di palla subito che ci pensiamo noi, e ti passa davanti quello con la maglia rossa e in un amen capisci che è andato, che verrà placcato solo dai suoi compagni, solo nella tua area di meta, solo per i festeggiamenti. Non è un bella sensazione. In una partita, più che mai in una partita di playoff, controllare il momentum è imprescindibile. E' la differenza fra vincere e tornarsene a casa.

Da lì in poi i Packers comiciano a scrivere la storia del loro 2011. Rodgers, che stava già facendo una partita molto solida, diventa praticamente infallibile. Guida i suoi per 92 yards in 10 giochi. E non lancia facile e corto. No. Gestisce la pressione, prende rischi, legge coperture in un modo che ho visto fare a gente come Montana, Elway, Manning, Brady. Non ha fretta, azione dopo azione fa la cosa giusta. E arriva il 14 pari dopo una corsa di Kuhn.

E questa partita diventa sempre più la storia di due giocatori. Rodgers, appunto. E Tramon Williams, il cornerback più attaccabile, di solito vittima sacrificale perchè sull'altro lato c'è un Charles Woodson. Williams fa un primo miracolo quando intercetta Matt Ryan all'interno della end zone dei Packers, anticipando Michael Jenkins con una elevazione terrificante. Il lancio di Ryan era un po' under, ok. Ma uccidere un drive in quel modo ha il suo peso sull'inerzia della partita.

E poi si riparte da Rodgers, che continua a non sbagliare niente. Cinque completi su sei, fino al lancio in end zone fra le mani di Greg Jennings, per il 21 a 14 che gela improvvisamente tutti i decibel che gonfiavano il tetto del Georgia Dome. Non è più un discorso di statistiche, di tendenze, di terzi down da convertire. Qui è un problema di emozioni. They were on their roll. Lo sguardo di Rodgers, che sembrava stesse facendo semplicemente quello che era previsto per lui in quel momento. I ricevitori, che si giovavano dello stato di grazia del loro quarterback. La linea, che dava tempo per fare tutto o quasi. La difesa, che stava imbavagliando la macchina perfetta di Ryan e dei suoi.

E manca poco, stanno per andare negli spogliatoi con un inaspettato vantaggio di una meta. I Falcons ovviamente vogliono provarci, si avvicinano e vogliono almeno arrivare a distanza di field goal. Tre punti non ti fanno schifo in quel momento. Ryan ha pochissimi secondi, buoni a quel punto per due giochi. La prassi è quella di pescare un ricevitore profondo e vicino alla linea laterale, in modo che esca dal campo, fermi il cronometro e permetta al kicker di entrare per il calcio. Ryan mira il suo bersaglio preferito, Roddy White. Ma è troppo scontata come soluzione, troppo. E poi c'è di nuovo Tramon Williams, che legge bene, anticipa White e senza più tempo sul cronometro sprinta per 70 yards e si ferma nell'area di meta dei Falcons. 28 a 14. Un parziale di 21 a 0. Lo stadio ammutolito, incredulo.

Vista, registrata, rivista un bel numero di volte, come per provare a ricavarne un incoraggiamento personale.

E la sensazione che stavano avendo loro al rientro nello spogliatoio.

We are the Green Bay Packers.