martedì 31 agosto 2010

Elogio di Bombolo

Franco Lechner (1932-1987) non era Alberto Sordi, nè Gigi Proietti.
Raccontò una volta di aver scelto il nome Bombolo rifacendosi ad una vecchia canzoncina per bimbi, e sicuramente perchè un nome d'arte così, calato su una fisicità come la sua, era più facile da ricordare rispetto "a quel residuato bellico de cognome che me ritrovo...".

Bombolo era una spalla, non un prim'attore. Tante parti in film di commedia all'italiana degli anni Settanta e Ottanta. I famosi B-Movie, spesso divenuti cult oltre le più rosee aspettative. Dava il suo meglio nel ciclo di film dell'ispettore Giraldi, interpretato da Tomas Milian (con la voce suprema di Ferruccio Amendola).

Uno humour non propriamente intellettuale. La comicità delle torte in faccia, anche con toni talora grevi. Parolacce, storie non impegnative, risate facili. Ma se il cinema italiano rinnegasse questa sua parte non sarebbe onesto.

Ma Bombolo a suo modo aggiungeva una nota poetica, un po' triste nella sua allegria. Probabilmente era il bambino che correva più lento, a cui si facevano sberleffi e dispetti in quantità. Nel tempo ha usato quella sua mimica come caratterista, come mestierante del cinema, di quelli che lavoravano a giornata magari retribuiti col pranzo.

Bombolo non recitava nell'accezione pura del termine. Faceva il verso a se stesso. Il romano un po' volgarotto, bonario, caciarone. Aiutato da un portamento morbido, da una mimica facciale caratteristica e da un tono di voce inconfondibile, è passato alla storia per le pernacchie, gli schiaffoni, le puzze, le parolacce in dialetto, i filmetti scemi. Vogliamo criticarlo, vogliamo comunque appioppargli etichette facili di stereotipo cafone? Liberissimi. Io non lo faccio, semplicemente in nome delle risate che mi ha fatto fare da ragazzino, quando nelle sale di seconda visione o nelle diocesane andavo a vedere quei film anche più di una volta. Non lo critico, in nome di tutti gli sganassoni che prendeva dall'implacabile Tomas Milian e che ogni volta venivano commentati con il suo immortale "Tz! Tz!"

Non ebbe molto rispetto di se stesso, e nel 1987 una cirrosi epatica lo portò via prematuramente.

Ma una nota carina. Ogni tanto, a Prima Porta, passavo davanti alla sua destinazione ultima.
Una targhetta con la sua faccia sorridente, "Ciao Bombolo, core de Roma".
E tanti fiori, sia mazzi interi (magari i suoi familiari) che isolati, forse lasciati da qualcuno che andando a trovare i propri cari, si ricordava anche di lui, di qualche risata strappata per un semplice pernacchio, per una battuta in dialetto...

Non si ride solo con Woody Allen.
E quei filmacci, parolacciari e sempliciotti, alla fine davano un modello molto meno negativo dei panettoni natalizi con cui ogni anno ci ammorbano l'esistenza.

"Ahia ispettò... Ma che c'avete 'na racchetta pe mano?"

venerdì 27 agosto 2010

Il mare di mattina

(Sottotitolo: Morning Woes)

Dormo male, per il caldo. Dormo poco, chissà perchè. Da un paio di giorni mi regalo un piccolo lusso. Scendo in spiaggia alle sette e mezzo di mattina. Il deserto. Solo lo stabilimento vicino che comincia a preparare la giornata, una gradevole scia di cornetto caldo dalla finestra del bar. Qualcuno che corricchia sul bagnasciuga, ma nessuno in acqua.


Una striscia di Tirreno come piscina privata, niente male. Da solo, completamente. Non è fredda. O meglio, la differenza fra temperatura dentro e fuori è irrilevante, eppoi basta farlo. Entrare, qualche passo per non arare il fondo, tuffarsi e lasciarsi.

Dovrebbe essere il rituale di inizio giornata: rilassarsi, pensare, porsi degli obiettivi. Nulla di tutto ciò. Lasci fare al mare, lo sa già da solo. Non ci sono onde, giusto qualche increspatura che ti culla un po' mentre stai lì a goderti una sorta di scrub metafisico, canticchiando qualcosa fra te e te...
"Ma s'io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni... vi sembra che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni....".
E' quello che ti passa in testa senza pensare.

Eppoi giochi, da solo. La sabbia è fermissima, non c'è gente, il mare è calmo, appare al meglio. Carina la sensazione di avere il sole in faccia quando sei abituato ad averlo su un lato, o di spalle. Ma sì, il sole, sta lì. Lasciarsi, di nuovo.

Una ventina di bracciate, quasi come dispetto a se stessi... Non devo preparare gare. Voglio giocare. Che faceva quel delfino in Messico? Si fermava, col naso a pelo d'acqua, inchiodato. Aspettava il via. Un colpo di coda, staccava due metri fuori dall'acqua da fermo. Che spettacolo... Proviamoci, va. Tanto chi mi vede. Non ho la pinna caudale, devo arrangiarmi. Mi raccolgo sul fondo e salto. L'effetto è più quello di una rana imitata da un bradipo che non di un delfino, ma pazienza. Altre bracciate. Porca eva, mi sa che devo uscire.

Insomma, ci sono giornate che iniziano in modi peggiori :)

giovedì 26 agosto 2010

Il souk di Tunisi

La Tunisia è un posto delizioso. Piccolina, si gira benissimo in auto con la dovuta dose di prudenza, poichè segnali e codice della strada sono visti in modo molto discrezionale. Ho avuto modo di andarci per periodi prolungati all'inizio degli anni ottanta. I posti da vedere sono molti. Mete per turistame da gusti facili, quali Cartagine, Djerba o Hammamet (che non era molto ben frequentata in quel periodo), posti noti ai meno quali Sidi Bou Said, punti quasi anonimi, come l'inizio di una regione desertica a Sud dove si poteva vedere la parte finale di un acquedotto romano ancora funzionante e utilizzato.

Tunisi mi evoca ricordi gradevoli. Un gran caldo secco, possibilità di girare in taxi straeconomici, epiche partite a tennis contro mio cugino, che mi lasciava sistematicamente a zero.

Come in ogni città nordafricana, uno dei luoghi da vedere davvero è il souk, il mercato. Nonostante tutta la mia fiera avversione a bancarelle e affini, quel posto m'è piaciuto.

L'entrata classica è in una piazza molto grande alla fine del tipico viale a due file d'alberi, scenario istituzionale delle promenade di Bourguiba.

Il souk è una specie di organismo a sè, città nella città, testa cuore e viscere di un modo diverso di vedere le cose. A patto di osservare un minimo di buon senso, ci si diverte. E' gradevole perdere tempo in dedali di viuzze dove si fatica a passare, dove si vedono abitazioni improbabili ma vere. Le bottegucce non hanno ovviamente costrutto. La macelleria è vicino al negozio di vestiti, magari condivide il magazzino con quello delle scarpe, del cuoio o degli articoli in ferro battuto.

Si trova davvero di tutto, perchè in effetti è un po' uno stock exchange dove passano di proprietà beni veri e propri, e non certificati e carta. Soldo in cambio di merce tangibile, cosa scambiata con cosa. C'è anche il baratto (solo per i locali). Uno degli aspetti qualificanti è una specie di rivalsa sulla civiltà del prezzo fisso. Qui si deve tirare sul prezzo sempre e comunque.

Un venditore di stoffe ci spiegava in ottimo italiano che esistono varie fasce di prezzo: locali, italiani, francesi, americani. Non fatico a vederlo spiegare ad un tedesco che l'ordine era: locali, tedeschi, francesi e americani e via di seguito.
La trattativa è il sale del souk. Bellissime vesti in cotone con tinture minerali. Prezzo suo: settanta dinari. Tu parti da quindici. Di solito sui trenta vi trovate d'accordo. Se ha fretta, o se intravede clientela americana, anche a venticinque.
La cosa curiosa è che un approccio di quel tipo valeva (oggi non saprei) anche per un quarto di bue dal macellaio, sebbene regolarmente prezzato.

E procedendo tra vicoletti più o meno maleodoranti e raccomandabili, facendo lo slalom fra i tavolini delle fumerie, si passa una mezza giornata divertente. Molte cose caratteristiche. Onnipresente ed invadente artigianato del ferro battuto, dove in un negozietto infinitesimale si parte dal piatto decorato a mano, ma ci si possono trovare anche tombini da strada, cassaforti fai da te, interi cancelli già pronti. Il coccio, smaltato o grezzo. Bellissimi i negozi di cotone, matasse coloratissime accatastate ogni dove, la proprietaria solitamente intenta a prepararne altre con una specie di arcolaio, una pioggia di colori magari chiusa fra un negozio di frutta e uno di chincaglierie. E le fin troppo caratteristiche rose del deserto, concrezioni di sabbia e acqua lavorate dal vento nelle maniere più varie. Molto belle, ma avendone disponibilità infinita le mettevano veramente in ogni dove, spesso chiedendo prezzi assurdi (ovviamente a francesi e americani, mica a noi...)

Nonostante mia robusta avversione al genere, è un posto che m'è piaciuto un sacco.


mercoledì 25 agosto 2010

Writers

Quando i media si occupano dei writers razziano a piene mani da un campionario di luoghi comuni non da poco. Disagio giovanile. Assenza dell'istituzione sul territorio. Necessità di spazi fruibili. Fornire un supporto psicopedagogico.

Oltre al lessico estratto pari pari dai libri di Starnone, i writers vengono di solito "inquadrati", cosa che credo li faccia ridere, se non inorridire.
Il benpensante che tuona contro il decoro urbano alterato. Boh. Posso forse capire che decorare completamente tutta una metropolitana è un po' oltre. Magari chi paga per quel servizio avrebbe bisogno di vedere dalle vetrate se la prossima fermata è la sua. Magari molto spesso il writing veicola messaggi politici o ideologici che puoi non condividere. Se ci si limita solo alle scritte è fastidioso, in effetti. Ma equiparare quegli esercizi di pitture pararupestri al writing d'arte è come dire che una musicaccia fatta di sample digitali accoppiati alla meglio è la stessa cosa che un assolo di Mark Knopfler. Non scherziamo.
Chi lo sa, anche il benpensante ha un fondo di ragione.

Questo è quello che mi viene da pensare in astratto.
Premetto: parlo per invidia perchè non so disegnare. La mia massima espressione artistica è l'omino della targhetta "Signori" della porta del bagno. Non oltre.

Ogni tanto però l'attualità sbeffeggia anche il pensiero dominante, grazie al cielo. Tempo fa prendo un treno che alla prima fermata deve aspettare del tempo perchè ci sono dei lavori. La fermata è in un posticino vicino al mare che ha tutti i connotati del non luogo. Casette decorose, un po' anonime, con la scritta "Attenti al cane". Gruppuscolo di escatologici seduti al tavolino del baretto, col giornale in mano. Sala scommesse. Insomma non vedi davvero l'ora di arrivare al mare, o che riparta il treno.

Quello che avevo visto però mi ha toccato da vicino. Tanto da vicino che stamattina, con un piglio investigativo anche troppo serio, ho deviato dalla rotta solita verso l'ufficio per raggiungere la stazioncina in oggetto, che di solito è anonima abbandonata e grigia.

Che si fotta il lato benpensante, questo qui ci sa fare!

Il pastore con il cane, e più avanti le pecore che ridono.

Le tre "anime celesti" che indicano qualcosa verso terra.



I due sassofonisti con il "Cambia musica Maestro!" sembrano uscire da Alan Ford.

L'astratto con un elmetto in testa e la catena attaccata.


Non ho fotografato un bellissimo "Toglietemi tutto, ma ridatemi i colori!"

Come dargli torto? :)

venerdì 20 agosto 2010

La strada romana

Per necessità lavorative e vacanziere faccio molti, troppi chilometri sulla Pontina. Strada che conosco buca per buca (anfatti le prendo tutte...).
Tempo fa, G mi fece notare l'esistenza di una alternativa per raggiungere la Pontina evitando la Nettunense. Mi disse "Fai più chilometri, ma ci metti meno tempo e poi c'è un pezzo che fa bene agli occhi". Filosoficamente, lo spazio è una risorsa riciclabile, il tempo no. Quindi mi feci spiegare da lui la strada alternativa. Lasciata la Pontina (la mia Telegraph Road), si va verso Anzio e Nettuno, quasi a metà. Dopo un semaforo, una leggera piega a sinistra e una discesa (arrivare piano per amore della coppa dell'olio, per carità...). E improvvisamente, da un metro all'altro, cambia il mondo.

Una pineta enorme, che dà ombra e riparo a tutta la zona. L'impressione di passare sotto un tunnel di due file di alberi, altissimi, fitti fitti e continui. A sinistra e destra, in pineta, gente che fa jogging (e magari altro, in altre ore del giorno).

A destra, parallela, una strada romana, un tratto di duecento metri perfettamente intatto. Colpisce la cura nella costruzione della massicciata, le giustapposizioni delle pietre, con le venature riempite da terra e aghi di pino. La sede stradale era stata preparata benissimo. Tutto in uno stato eccellente nonostante la poca cura nella conservazione, qualche bottiglia di integratore buttata lì da eventuali runners poco civili, un insipido cartello "Antica strada romana", senza date o altro. Ma con una dignità sua, quella di un lavoro che avrà richiesto il suo tempo, la sua fatica ma che sta lì dopo decine di secoli, ancora ready to serve.
Resti di una civiltà.

La strada moderna su cui si transita, a pochi metri da quel gioiellino, esce disintegrata dal confronto. Le radici dei pini che periodicamente la smuovono, la rompono, arrivano a creare fessure tipo fossa delle Marianne che magari ti fanno anche fare esperienze meritevoli, quali una foratura di sabato notte (non è poi troppo raccomandabile nell'oscurità), con l'intervento gentilissimo di un amico che mollando famiglia e ospiti per la tua telefonata si presenta quasi in tenuta da Hannibal e ti aiuta, lasciandoti anche il suo cric in regalo perchè il tuo s'è spezzato, (grazie D !!).
Viene riasfaltata periodicamente, magari come vernissage pre-elettorale. E dopo un paio di mesi comincia a riaprirsi. E prima e dopo la strada romana, un po' di squallore vario. Pezzi di ferraglie, discarica di elettrodomestici, materassi, rifiuti di ogni tipo, mobilio vario, sedie riciclate da donne che stanno lì in attesa, tristi come la ruggine delle carcasse degli elettrodomestici lì accanto.
Resti di una inciviltà.

giovedì 19 agosto 2010

My place

Ogni tanto mi capita di passare una giornata di lavoro in interazione con i miei ex colleghi, per finire eventuali code di vecchie cose. Quando capita mi si legge in faccia. Professionalmente e umanamente questo gruppo di persone, anche se in divenire pressochè continuo, mi ha tenuto compagnia, ci sono stato bene, ogni tanto anche fuori ufficio.

Ma l'appeal del posto è particolare. La percentuale di tempo spesa lì è rispettabilissima, e il fatto di esserci stato bene è importante. Persone con cui lavori, ti confronti, non sei d'accordo ma rispetti il razionale che guida le loro opinioni tecniche e non. E qua e là, amici anche fuori dalle mura, per una bistecca insieme, una pizzata fuori, un po' di benedetta goliardia.

Il posto, dicevo. E' una specie di microcosmo, è aperto 24 ore al giorno, 365 l'anno. C'è sempre qualcuno, internet va. E' un open space e non poteva essere diversamente. Ci ho passato giorni, notti, giorni e notti.
Ci sono corso di sabato, in un sabato in cui avevo due di loro a cena, e mi hanno spedito a casa a impastare la pizza alle cinque.
Ci ho passato un capodanno, chiamato per una defcon 1 collettiva alle due di notte, organizzando al volo quello che dovevamo fare mentre ero in auto a velocità rispettabile.
Lavorato su cose da fare in fretta e furia perchè si potevano pianificare meglio, e dopo la solita dose fisiologica di mugugni tutti lì a collaborare e a risolvere.
Ci sono stato bene, insomma.
Un dream team chiassoso, allegro ma serio quando non si deve scherzare. Un bel gruppo, consapevole della pressione da gestire e degli impegni da rispettare. Ma col gusto difficile di riderci su nei limiti del possibile, che aiuta tantissimo.

E come si vede dalla foto, the edge lives here.


Se la vogliono leggere, con affetto :)


mercoledì 18 agosto 2010

Vintage drink!

Ladies and Gentlemen, we got it! (cit.)

Giorni fa ho avuto il primo incontro della mia vita con uno di quei miti che restano inalterati nel tempo. Vabbè, understatement. Però che soddisfazione. Ogni estate, ad agosto, solo sulla tele pubblica, quello spottino immutato con il jingle cantato da Mina. "Per voi e per gli amici, Tassoni". La mitica cedrata! Ho sempre pensato che quegli spottini fossero messaggi subliminali, codici per agenti di intelligence improbabili, alla stregua del "Dio c'è" vicino ai guard rail delle autostrade per indicare punti di contatto per commerci poco commendevoli.

Fino alla scorsa settimana, per me la cedrata era appunto una chimera, una categoria dell'essere impalpabile e forse inesistente, come il collegio dei probiviri del PdL (ahem...)

Esternavo queste perplessità a cena all'aperto, e la sfida è stata raccolta da D (grazie grazie grazie), una simpaticissima amica di mia moglie che dopo un paio di giorni si è presentata con l'agognata confezione.

Il tappino a corona viene conservato dal sottoscritto nella sua personalissima collezione insieme al leggendario tappo della bottiglia di bianco.

Passando poi alla descrizione del liquido cedratico... è buono! E' dolce, gradevole, da bere freddo. Un aperitivo dignitosissimo, magari anche con un filo di vino bianco come correttivo.


Ok, fine della puntata di Anima mia :)

martedì 17 agosto 2010

The art of quarterbacking - John Elway

Non è facile parlare di football senza parlare di football. Tautologico. Ma ci sono delle figure e delle storie così limpide che permettono di togliersi anche questi sfizi. Sì, forse è lo sport che più di ogni altro si nutre di cifre, macina statistiche, tendenze, grafi. E' molto scienza esatta. Ma fra tutti gli sport che ho seguito o che ho provato a fare, forse questo è il mio.

Nessuna pretesa di essere capito. Ma è veramente simile alla vita, per quanto perdoni poco o nulla. E ha un suo pathos, una sua mistica. Da qualche tempo la tv usa un raggio luminoso nei replay in campo lungo per segnare la traiettoria di un lancio fra quarterback e ricevitore. Essere stato almeno una volta ad una delle due estremità di quel raggio significa qualcosa.

Il football è sport di uomini, che devono capire che l'interesse personale si identifica con quello della squadra. Esiste una figura di riferimento che ha il suo fascino. Il Quarterback. Non si traduce. E' il generale in campo, è spesso l'icona della sua squadra. In un contesto dove non riesci a contare quanti giocatori hanno stipendi monstre, quando il quarterback parla gli altri stanno zitti e ascoltano. Se è un vero leader. Altrimenti... Beh, parliamone il prossimo anno. La leadership di un quarterback è fatta di intangibili. Tecnica e personalità, non ti serve il droide che spara un lancio di ottanta yards ma i compagni non lo stimano. Non vai da nessuna parte.

John Elway è stato il migliore della mia generazione. Il cuore dice Marino, i numeri dicono Montana.

No. Elway è la parabola perfetta. Arriva come predestinato, talmente predestinato da imporre di giocare con Denver e non con i derelitti Colts che lo avevano scelto. Ma evolve presto nella scomoda veste di perdente di lusso. Arriva al gran ballo e buca la serata, o restando comunque sulla sufficienza (contro i Giants), o partendo alla grande per venir poi semplicemente outplayed da una squadra più squadra (contro i Redskins). O venendo tout court annientato, annichilito (contro i 49ers). E il tempo passa. E' vero, se un quarterback resta integro è come il vino, gli anni lo migliorano. Impara dai suoi errori, non deve giocarsi il posto ogni volta, semmai si preoccupa della successione. Ma dentro c'è un motivo a non fermarsi, se non hai vinto nulla. Non contano i milioni, non contano le botte. Forse i primi mitigheranno gli effetti delle ultime.

Elway nel tempo sfoderava sempre degli heartbreakers che non potevi non amare, anche se li ha fatti in faccia alla tua squadra.
The Drive, la leggendaria serie nel fango e nella neve di Cleveland. Un altra serie memorabile contro gli Oilers di Warren Moon, con due situazioni di do it or die risolte come poteva solo lui: il braccio e le gambe. E la testa. E il cuore.

Ma mancava qualcosa. Elway era in una squadra che fidava troppo solo su di lui. Difesa passabile, ricevitori onesti, ma nessun corridore che permettesse di variare un po' il menu in attacco. Fino all'arrivo di Terrell Davis nel 1995. I Denver Broncos arrivarono finalmente ad avere anche la dimensione che mancava loro storicamente, ormai. E John Elway aveva qualcuno che gli toglieva un po' di carico dalle spalle. Qualche innesto in difesa, e Denver nel 1998 arriva finalmente in finale, forse ancora con la scimmia dell'ultimo massacro patito contro i 49ers di Montana. E la finale non si preannuncia facile, contro i reigning World Champions, i Green Bay Packers di Brett Favre, di Reggie White, di tanti altri fuoriclasse.

La partita è in equilibrio, le squadre si rispondono colpo su colpo. Ma Elway sui lanci sta andando così così. La difesa dei Packers è fortissima, e in quel momento Terrell Davis, che stava dominando la partita, è ancora non al massimo per l'emicrania.

Forse esiste nella vita di ogni giocatore e spero di ogni persona il secondo in cui hai la possibilità di mettere tutto te stesso per la cosa in cui credi. E l'unica arma che hai per farcela è te stesso. Elway soffriva quella partita, e l'assenza di Davis lo stava ributtando nei panni di One Man Show. Ancora una volta. E a 37 anni, e una immeritata nomea di perdente.


C'è da guadagnare qualche yard per continuare ad andare verso l'area di meta dei Packers. Tre punti sono meglio di nulla, ma non sono sette punti. Devono guadagnare sette o otto yards. Cautela con i lanci in mezzo. Eugene Robinson aveva già intercettato Elway poco prima, e perdere la palla sarebbe stato letale.

Elway arretra. Cerca un compagno libero che non c'è. Inizia a correre, e a 37 anni ha perso un po' il suo passo. Non può permettersi di divagare all'esterno e cercare "la luce", lo fermerebbero prima. Va in mezzo, a vita persa. Contro tre difensori dei Packers. Tre.

Le parole di Eugene Robinson, uno dei tre.
"Because in that split second you knew that he wanted it, and wanted it more than anybody else on the football field."

Una azione così cambia qualsiasi partita. Nessun giocatore mollerà più niente, vedendo un trentasettenne multimilionario che non ha troppo altro da dimostrare fare quella cosa.
I Broncos segnarono, presero punti, segnarono ancora e vinsero una delle più belle partite mai viste. E vinsero ancora l'anno dopo, coronando l'ultima partita di Elway con l'ultima vittoria in una finale.

Ho avuto la fortuna di vedere il casco indossato da Elway in quella partita, autenticato, con foto e firma, in vendita a Dallas in uno store di Field Of Dreams. Prezzo inavvicinabile. Giusto, in fondo. E' il prezzo di una emozione.

Grazie John :)

lunedì 16 agosto 2010

Piccolo commercio balneare

Per la cronica assenza di notizie degne di letture e approfondimenti nel periodo estivo (eccezion fatta per i problemi monegaschi dei notabili, could care less), in questi giorni di mare mi sono divertito a vedere l'evoluzione della microeconomia da spiaggia, magari ricavando qualche conferma a un po' idee personali. Tutto molto semplice, chiaro.

Dato uno: la cosiddetta utilità marginale: una bottiglia d'acqua nel supermercato di città costa x, nel mezzo del deserto costa 5x e non c'è meccanismo di domanda e offerta che tenga. La cosa è stata recepita dal grattacheccaro ambulante, che gira più e più volte la spiaggia col suo carrettino. Il delta fra una granita al bar dello stabilimento (devi andarci tu) e quella dell'ambulante (te la porta lui, devi solo essere a portata di fischietto) è di un rispettabile 50%.

Altro personaggio che ha ben chiara la nozione è il cosiddetto cappellaio matto, che gira la spiaggia indossando una pila di cappelli in testa e reggendo una fila di attaccapanni per mano. Se hai smarrito o dimenticato il cappello, se il sole in quel momento sta incocciando oltre misura, se poi magari sono i bimbi ad accusare il problema, ci si riconduce al discorso della bottiglia d'acqua nel deserto. Ma è simpatico vedere quando arriva, indossando in testa una colonna di panama che ti fa pensare ad una pila di libri di Garcia Marquez...

Le boutique su ruote... Nel tempo sono diventate veri e propri outlet mobili. Carrettini sempre meno ini, costumi, scamiciate, pareo, sventolanti e colorati, che attirano immancabilmente le signore. Qui non è un discorso di utilità marginali, è semplicemente un articolo che può interessare, che è "estivo", cioè semplice e colorato di suo, a un rapporto qualità-prezzo solitamente passabile. Ma davvero, mi sa che alla fine della giornata il tizio ha due bicipiti molto provati...

Le cineserie... Occhialini, mollettoni, fermacapelli, orologini, occhiali scamuffi, gadget vari. Più un rumore di fondo che altro.

Se devo muovere un appunto al tessuto microimprenditoriale da spiaggia... hanno maldestramente sottovalutato il bacino di clientela più giovane e esigente: i bambini. Il venditore di aquiloni faceva una figura notevolissima, sfoggiando un filo con una trentina di articoli perfettamente in favore di vento, una sorta di bellissimo gonfalone mobile. Ma l'articolo sta diventando fuori moda di suo, forse. Quello che invece dovrebbe meditare sul salto di qualità è l'ambulante che vende vari gonfiabili: ciambelle, braccioli, materassini, poltroncine, papere ed altro. Tutti articolini anonimi, un po' sempliciotti. Se portasse ciambelle e braccioli griffati con le infinite possibilità offerte da cinema e media andrebbe via la sera con le tasche gonfie, vista la sempre maggiore difficoltà con cui neghiamo qualcosa ai bambini, specialmente nella congiuntura in cui un capriccio in più ti compromette una giornata che vorresti distesa e allegra.

Il premio I like it di questi giorni però lo attirava un ragazzo intorno alla trentina, sempre vestito di tutto punto, con un piccolo carrellino che sulla parte anteriore portava tre o quattro cassette di pannocchie di mais e un paio di cassette di carbone e sul retro aveva un rugginoso vecchissimo barbecue acceso, che lui utilizzava per arrostire le pannocchie fino alla giusta doratura. Mi piaceva questa cosa che strideva un po' con gli altri business, tutti basati su una scelta più o meno lunga, su un po' di contrattazione e basta. Qui ti fa scegliere il pezzo, si prende tutto il tempo opportuno per la cottura e nel mentre tenta di imbastire una conversazione in una lingua diversa dalla tua. Faceva simpatia, spero che gli affari lo stiano premiando :)

venerdì 6 agosto 2010

Ninni Cassarà

Il commissario Antonino (Ninni) Cassarà venne ucciso il 6 agosto 1985, all'età di 37 anni. Sposato, padre di tre figli.

Insieme a lui cadde Roberto Antiochia, agente da poco trasferito a Roma ma che chiese di ritornare a Palermo per non lasciare il suo dirigente senza persone fidate, soprattutto dopo l'omicidio di Beppe Montana, avvenuto pochi giorni prima in un agguato a Porticello.

Ninni Cassarà era uno di quei poliziotti che interpretavano il loro lavoro nella maniera più vera e integrale possibile. Senza compromessi.

Cassarà era il braccio operativo del pool antimafia di Palermo. La sua carriera partì a Trapani, dove si inimicò l'alta borghesia locale che non gradiva essere disturbata nelle case da gioco clandestine.

Mandato a Palermo, riuscì a trarre profitto dalle informazioni di una rete di confidenti che era riuscito a costruire con l'aiuto di un altro bravissimo poliziotto, Calogero Zucchetto, anche lui caduto sotto il fuoco mafioso.
E' opportuno precisare che il modus operandi di Cassarà era del tutto legittimo. Le informazioni dei confidenti venivano vagliate scrupolosamente, si cercavano prima evidenze e riscontri, e poi si agiva. E uno dei confidenti di Cassarà, coperto dallo pseudonimo Prima Luce, era Salvatore "Totuccio" Contorno, uno dei pentiti che mise polizia e magistratura in condizione di assestare colpi durissimi all'organizzazione mafiosa.

Cassarà era quindi uno dei tanti "conti in sospeso" che Cosa Nostra aveva urgenza di sistemare in un periodo in cui l'onda di sangue della guerra di mafia non si faceva problemi a straripare anche contro le istituzioni, contro gli onesti che combattevano il versante nobile di quella guerra.
Il commissario vide cadere intorno a sè nomi importanti sotto il profilo istituzionale. Il prefetto dalla Chiesa, il giudice Chinnici. Vide cadere i suoi colleghi, Zucchetto e Montana. Sul fronte mafioso il fronte Greco-Corleonesi stava passando per le armi tutto lo schieramento avversario di Bontade e Badalamenti.

Gli effetti collaterali del periodo del terrore, però, non furono banali. Tommaso Buscetta, vistosi accerchiato e colpito negli affetti primi, decise di collaborare con Falcone e disegnò una mappa molto attendibile del potere mafioso sull'isola, dando un apporto imprescindibile sia per quanto riguarda le operazioni di polizia che per quanto riguarda la comprensione del fenomeno. Come disse Falcone "Buscetta ci permise di comunicare coi turchi senza esprimerci a segni".

L'iter che condusse all'omicidio di Cassarà era un tipico. Screditare, isolare. E poi uccidere, che è più facile e sembra quasi un doloroso dovere. L'omicidio del suo collaboratore Montana era una semplice necessità operativa di Cosa Nostra. Poliziotti troppo curiosi. Ma nei giorni seguenti una escalation di isteria e di errori portò all'uccisione in caserma di uno degli indiziati fondamentali, Salvatore Marino. Omicidio maldestramente mascherato, opinione pubblica giustamente contrariata, una manna dal cielo per chi cercava pretesti per isolare culturalmente chi lottava la mafia davvero.

Il 6 agosto Ninni Cassarà tornava a casa dopo giorni in cui non aveva mai lasciato la questura. Telefonata estemporanea alla moglie per avvertire, per un piatto di pasta. Non si sa se una fonte interna alla questura abbia avvisato dell'uscita del funzionario o se il commando, che aveva comunque modo per farlo, stesse sistematicamente presidiando il percorso. Fatto sta che l'autista dell'Alfetta fece scendere Cassarà e Antiochia esattamente davanti al portone del palazzo, a non più di tre o quattro metri dall'androne coperto, dalla sicurezza. Tre o quattro tiratori erano pronti e appostati sulle finestre delle scale del palazzo di fronte, e investirono i due poliziotti con una vera grandinata di colpi. Uno solo colpì Cassarà, tranciandogli l'aorta. La moglie vide e sentì tutto.

Ricordiamoci anche del sacrificio di queste persone, che hanno creduto fino in fondo alla battaglia che combattevano. Non è nemmeno più un discorso di risultati. E' il valore dell'esempio.

mercoledì 4 agosto 2010

Delfini!

L'interazione con gli animali è uno dei processi che nella vita di ognuno di noi, a vario titolo, non manca. L'animale domestico, qualche passaggio allo zoo in età infantile. Libri, documentari, favole. E' un processo che ci mette di fronte ad un modo di vedere le cose "primordiale". Gli animali sono diretti, onesti quanto i bit. Bisogni, pulsioni, affetti. Tutto così lineare.

Mi piace, non ho difficoltà relazionali. La sincerità dei cani, l'approccio sornione dei gatti, anche l'eterno stato di cuccioli dei conigli. Tutto carino, tutto con un po' di vissuto dietro che ricordo volentieri.

Ma i delfini!

Sembra quasi che il rapporto sia capovolto. Magari sarà per la grandezza e la forza che hanno. Danno quasi l'impressione di essere loro a guidare il gioco, con l'aria beata ed irridente che mostrano. Vuoi che ti porto a spasso in acqua? Accontentato. La camminata sulle pinne? Avanti o a retromarcia? Il salto fuori acqua da fermo? Due metri con un colpo di coda. Continuiamo? E li vedo sorridere, interagire, capire. Comunicare.

Ho avuto la possibilità di far vedere ai miei bimbi uno spettacolo di delfini dal vivo, e durante il mio viaggio di nozze passai un'ora e mezzo stupenda a fare il bagno coi delfini a Xelha, in Messico. In un parco protetto, in acqua con loro, con gli istruttori (invidia!!!) che dalla riva del laghetto ci raccontavano vere e proprie "storie di vita" di questi mammiferi, in modo interattivo. I delfini che facevano appunto i loro numeri passando in mezzo a noi, umile turistame di terra.
Il momento delle foto... si mettono in posa affianco a te mettendoti la pinna dietro le spalle, ti baciano sul viso, si fanno abbracciare, dando proprio l'idea che stai abbracciando un'altra persona, non un pesce squamoso.
No, non si può raccontare tutto. Bisogna farlo. Ogni tanto mi riguardo la foto in cui sono ritratto "mano nelle pinne" con il delfino, la faccia felice.

Considerazione laterale. Tutte o quasi le occasioni che abbiamo per vedere dal vivo i delfini o interagire con loro implicano il fatto che si tratta di animali comunque privati della loro libertà. Un po' bisogna pensarci. Bisogna capire, verificare come stanno questi animali. E' bello vedere l'intimità del contatto che si crea con l'addestratore. Ma sempre di animali in cattività si tratta. In mare aperto non sono avvicinabili con le buone (provate ad inseguire un pesce a nuoto) e potrebbero non essere sempre disponibili (stiamo parlando di animali grossi).

Restano comunque i protagonisti di uno degli spettacoli più belli che la vita in mare può regalarci.

Let's go Phins! ;)