martedì 28 febbraio 2012

Er tuttologo mbriaco

"Marmeladov og Raskolnikov", Anders Kielsgaard Hansen (thanks Anders!)
Sere fa ero nella pizzeria dove di solito mi rifornisco vicino casa. Buona, rapporto qualità prezzo onestissimo, puntuali con i tempi sugli ordini, locale tranquillo in cui sto imparando un po' a distinguere la clientela abituale da quella di passaggio.

Trovo in piedi davanti al banco un tizio dall'eloquio debordante, dalla bottiglia di birra vuota (la prima) o a metà (la seconda). Vestito di scuro con giacca pantaloni e sneakers, calvo, decisamente imbolsito, età indecifrabile che potevo stimare fra i quarantacinque malmessi e i cinquanta accettabili. Per la prima volta ho dovuto aspettare un po' per le mie pizze, succede. 

Mi sono focalizzato sul tipo, perchè era impossibile fare il contrario. Mettiamoci le due birrette forse a digiuno, mettiamoci una necessità di confronto con gli altri nemmeno repressa, in sostanza il tizio attaccava discorso a chiunque entrasse. Eloquio popolare ma non incolto, sboccato ma non troppo (se l'argomento dominante è l'onnipresente calcio non si va poi in punta di fioretto), non risparmiava nessuno. Studenti con probabile accento lombardo, che incrociava spesso perchè abitavano vicino, snocciolando dati su costo carburanti, esami universitari e flirt in essere o in programma. Prese in giro per le tifoserie avversarie. Il governo, immancabile: a far cassa sulle tasse sono buoni tutti, non servivano i tecnici. Il suo capo, chissà per quale oscuro incastro uno così in una posizione di responsabilità. E la Merkel, la Grecia. E un supplì, perchè non si beve a digiuno

La ragazza al bancone lo guardava, non si comportava meno che educatamente ma non aggiungeva spunti.

E il tizio che procedeva. Unico refrattario alla conversazione il sottoscritto, che si distraeva sulla tabella dei prezzi. Ma non perchè mi facesse ridere. Tutt'altro. Mi metteva veramente a disagio. Avevo l'impressione che proponesse un personaggio, che cercasse di vendere l'immagine di uno sempre e comunque a proprio agio, mentre trasparivano forse problemi sul lavoro, forse problemi personali. L'occhio un po' spento, la risata forzata. Magari quella birra un po' lo stappa, gli permetterà di chiudere la giornata con una idea di rilassamento, di confronto con gli altri che magari non ha al di fuori di clichet in cui è costretto ma non si riconosce, come molti.

No, non metteva molta allegria. Per una parte era un po' una accettabile caratterizzazione di Verdone, il logorroico che si attacca ad ogni virgola di ogni argomento. Ma per un'altra era l'ubriaco di Guccini, che si sforza per attirare un po' di consenso di un improbabile pubblico. E anche un po' di Marmeladov, l'ubriaco di Delitto e Castigo, che racconta la propria vita in una taverna a Raskol'nikov, tra sensi di colpa, tristezza latente e rigurgiti di dignità.

No, niente da ridere. Respect.

Cercando qualcosa che mi piacesse come illustrazione, ho trovato l'immagine sopra riportata, concessa gentilmente dall'autore Anders Kielsgaard Hansen. Thank you Anders! :)

lunedì 27 febbraio 2012

Do it yourself: Angry Birds!

Sentirsi osservati

Per tentare di distrarre per un po' di tempo la prole dai divertimenti multimediali, un bel pomeriggio decido di portarmeli ad un vicino negozio di articoli da disegno per acquistare il necessario per riprodurre a mano quelli che nel tempo sono diventati uno dei nostri passatempo preferiti: l'improbabile gruppo di incazzosissimi pennuti che si immolano contro una banda di suini verde acido che si è impossessata delle loro uova: gli Angry Birds!

Inutile negarlo: impastare il das con le mani, impastricciarsi tutti, sentire quell'odore caratteristico della immortale massa argillosa ci riporta all'infanzia. Lavoretti scolastici o casalinghi, esecuzione più o meno accurata, gli esiti più vari (secondo le mamme sempre capolavori). Tant'è. Un paio di panetti di Das Bianco (non si scherza nulla), scatoletta di tempere con pennello di qualità accettabile, una pretenziosa spatolina di legno per modellare la materia inerte.

E inutile negarlo, m'è scoppiata la mania delle sculturine col das, specialmente dopo avere scoperto in casa che per residui tentativi domestici di decoupage, disponevo anche dell'equivalente economico del Vernidas, sogno proibito di ogni infanzia proletaria, che in effetti costa al litro quanto un Brunello di fascia alta.

Per riprodurre i simpatici volatili mi sono ispirato a modellini che abbiamo comprato tempo fa in Danimarca, ancora introvabili in Italia. Un po' perchè ognuno di noi ha la sua curva d'apprendimento, un po' perchè il mio istinto da modellista vira più al reale che al caricaturale, il primo dei pennuti pareva più una mascotte degli Arizona Cardinals che non il corrispettivo della tribù degli AB. Va detto che in effetti anche nella realtà non è troppo dissimile dal picchio cardinale (Cardinalis cardinalis. Documentarsi!)

Insomma, dopo aver ripreso una onesta confidenza con la modellazione solida, ho dovuto affrontare i colori a tempera e la loro miscelazione... E non è tutto così banale. Prendiamo come esempio il porcio, come lo chiamiamo noi. Sono partito dal verde, ho allungato col giallo limone ma nulla. Verde dominante, dovevo partire dal giallo e allungarlo con il verde per ottenere l'effetto acido con cui i padri finnici hanno disegnato l'ignobile suino.

Dove le reminescenze modellistiche mi hanno aiutato è stato nella gestione delle appendici sporgenti: becco, piumaggio di testa e di coda. Qui per evitare inopinati ammosciamenti ho utilizzato parti di stuzzicadenti in cui attaccavo il becco o le piume per poi infilarle nella parte sferica modellata. Nessun problema di tenuta, nemmeno per il becco dell'uccello boomerang (a ore due rispetto al porcio in figura), il cui ingombro in sostanza fornisce anche il secondo punto d'appoggio al pupazzetto. Whoa!

Ingegneria estrema
Ma dove bisogna veramente fermarsi e riflettere, inutile negarlo, è l'equilibratura della Mighty Eagle. Per i profani, la Mighty Eagle è un succoso add-on che aiuta nei livelli più fastidiosamente involuti. Si lancia una scatola di sardine come esca in mezzo ai porci e dopo qualche istante arriva la collera divina, di cui si percepisce appena un'ombra. Quella è la Mighty Eagle, raddrizzatorti di ultima istanza.

Il personaggio è un'aquila un po' imbolsita che comunque sa far bene il suo mestiere. Il problema vero è la costruzione del becco. Poichè le misure del disegno sono tali per cui un becco pieno sbilancerebbe in avanti tutto il pupazzo, con l'indecoroso effetto di fare appuntare di naso la collera divina, ho costruito una sagoma interna di carta che ho ricoperto con una sfoglia molto sottile di materiale. Le uniche parti piene sono la mandibola a effetto pappagorgia e l'estremità adunca del becco. Inoltre ho predisposto un sistema di puntellamento con stuzzicadenti incollati e infilati in vario modo che entreranno a fondo nella parte solida che costituisce il blocco testa-tronco del regale pennuto. Sono quasi contento. La resa pare onesta, il becco tiene e non ha collassato sulla parte sottostante, il pupazzo si tiene perfettamente in equilibrio. Il primo che lo equipara a un fermacarte farà i conti con l'aquila stessa, una volta che si sarà asciugata la pittura di fissaggio (oh, ci vuole il suo tempo!)

Giusto per dirlo, dopo i primi dieci minuti io ero al lavoro, sporco e divertito come non mi accadeva da tempo, e i bimbi erano davanti al pc a far giustizia di suini con gli Angry Birds veri :)


giovedì 16 febbraio 2012

Le mani di Wes Welker

Wes Welker, The Drop, Indianapolis 2012
Come arcinoto, il football sa essere crudele.
E' uno sport in cui la vittoria si costruisce con forza, perseveranza, professionalità, cuore e cattiveria insieme. Chiedendo a noi stessi ogni volta di più, fino ad arrivare al limite; e poi fermarsi e provare ad andare oltre, perchè quel limite è già stato battuto da qualcuno. Ma ci sono anche gli episodi.
E c'è quello che in ogni disastro di un meccanismo perfetto viene ribattezzato come errore umano.
In molti casi questo è proprio l'evento più spietato, quello in cui il miliardo e passa di tifosi da poltrona che vedono il Superbowl ogni anno dicono "Noooo! Da lui non me lo aspettavo!"

Ora, come si può ricavare leggendosi qualche post in questo blog, non nutro particolari simpatie per i Patriots. Qualsiasi "vinco facile" mi dà noia, figuriamoci questi che me li trovo anche nella stessa division dei miei Dolphins. Nelle loro due ultime partecipazioni al gran ballo sono stati battuti per due volte partendo favoriti, per due volte dallo stesso avversario e con la stessa spietata modalità: hanno preso punti quando poi non c'era più tempo per replicare. E sinceramente non mi dispiace punto vedere Brady e soprattutto Belichick uscire dal campo guardando a terra col sorriso triste. Questioni di intendere il football. Poi vincono e hanno ragione loro. Ma si chiama Rivalry. Per un tifoso dei Fins vedere i Patriots perdere un Superbowl è appena un gradino sotto ad una nostra ipotetica (molto ipotetica, attualmente) vittoria. Facciamo pace col fatto che, con un bel po' di civiltà sportiva in più, Curva Sud e Curva Nord esistono anche negli States.

L'ultimo Superbowl s'è svolto su una sequenza di episodi, ovvio. Il miracolo di Manning e Manningham è quello che negli anni prossimi verrà definito iconic per questa partita. Ma dalla parte degli sconfitti l'episodio che ricorderanno con un robusto contorno di maledizioni in slang bostoniano è la mancata ricezione di Wes Welker circa tre minuti prima. Su un secondo e undici Brady ha tempo per lanciare, trova Welker incredibilmente aperto nella terra di nessuno, in quel momento in cui il corner lo ha mollato e il safety ancora non lo ha coperto. E va detto che Brady quei lanci non li sbaglia. E che Welker non li perde. Ad essere fiscali, Brady non era proprio esattamente sul target. Di solito lui mette quei palloni in modo più pulito, tale da non interrompere la corsa del ricevitore. Da un guadagno di dodici yards ne tirano fuori una ventina. Sono forti e gliene va dato atto. Stavolta Brady ha lanciato forse un po' troppo alto, forse un po' troppo sulla spalla interna. Ma in tutta onestà, la saggezza degli antichi dice che if you put two hands on it, you have to keep it

Welker non ce l'ha fatta.

Ha fatto tutto bene. Si è mosso divinamente nella copertura dei difensori, si è fatto trovare libero, si è avvitato in aria per prendere quella palla. Ci ha messo sopra due mani. Ma non è bastato. Le facce e il "Nooooo" dei suoi compagni della difesa seduti a bordo campo dicono tutto. Quella ricezione avrebbe chiuso la partita. Avrebbe permesso a Brady di continuare a muovere palla e tempo, di arrivare a mettere punti senza dare a Manning il tempo per provarci. Ma Welker non l'ha tenuta. Manning è entrato poi sereno, consapevole di essere un fuoriclasse vero lui, figlio di fuoriclasse e fratello di fuoriclasse. Di essere un predestinato. E ha fatto quello che ha fatto.

La disperazione di Welker era quasi palpabile. Dopo la partita gli è caduto addosso di tutto, dai commenti acidini della signora Brady alla goliardata stupida delle pasticcerie bostoniane che gli hanno dedicato il dolce "Mani di burro". Vale sempre il detto che col sedere altrui è tutto più facile, mi pare ovvio.

L'onore delle armi a Welker va dato tutto. Sia per la sua immediata autocritica, che per tutto quello che fa questo ragazzo in campo. Blocca, corre, riceve, riporta i calci quando serve. In cinque anni ai Pats è sceso sotto le cento ricezioni annue solo nel 2010, per infortunio. E quest'anno è arrivato nel ristrettissimo gruppetto di quelli che possono vantare il 99-yarder, la ricezione per tutto il campo (contro di noi, ovviamente...). Un go-to guy per definizione, uno sempre affidabile. Stavolta è successo a lui, proprio all'ultima persona da cui ci aspettava un errore simile (va detto che sono arrivati al SuperBowl con un gruppo di ricevitori popolato da tight end disastrati come Gronkowski e da fenomeni da baraccone in disarmo come Ochocinco).

Vedere su di lui il peso della sconfitta mi ha dato un po' fastidio. Almeno Brady ha detto "Non potrò mai criticarlo per un pallone non preso". Meglio così.

Better luck next time. Forse ;)

mercoledì 8 febbraio 2012

Fading Route

Mario Manningham. The Fade, Indianapolis 2012
Giorni fa mi sono imbattuto in un documentario molto interessante sulla balistica, sull'evoluzione di proiettili e di armi da fuoco. Un proiettile tondo sparato da un'arma a canna liscia aveva una gittata limitata, la resistenza dell'aria e la gravità avevano la meglio molto presto. Già introducendo una rigatura nella canna di sparo, l'aria induceva una rotazione che aumentava la gittata, perchè il proiettile, anche sferico, cominciava a girare intorno a un asse e aveva un po' di portanza in più. Cambiando poi la forma del proiettile da sferico a cilindro-conico, l'effetto combinato di aerodinamica e portanza contribuì ad aumentare notevolmente la gittata del proiettile.
L'effetto sopra spiegato si chiama stabilizzazione giroscopica. E il documentario stesso spiegava che è esattamente quello che accade con un pallone da football. Le cuciture sul pallone hanno lo stesso effetto. Eterna calamita dello sport che mi piace di più in assoluto.

Il Superbowl di domenica scorsa è stato molto intenso agonisticamente, bello ma non bellissimo. Due squadre toste, difese opinabili ma attacchi di fascia alta. 

I soliti, maledetti predestinati bostoniani che da un decennio mi mandano i campionati di traverso. Ok, non sempre. Troppo bravi, troppo forti, anche belli, con la Gisele in tribuna a tifare per il coniuge. Il loro unico difetto: una presunzione senza limiti, in campo e a bordo campo. Non mi hanno impressionato particolarmente. Hanno avuto un calendario estremamente condiscendente, nella seconda parte della stagione non hanno mai giocato contro una squadra con un record positivo. Hanno ottimizzato le risorse, limitato gli infortuni. Forti, ma non come negli anni scorsi. E per una volta, attaccarsi nella offseason a due fenomeni da baraccone come Haynesworth e Ochocinco non ha pagato. Ci deve essere un limite. La prima squadra vera incontrata in campionato, gli Steelers, li ha zittiti senza se e senza ma. E poi il championship contro gli ottimi Baltimore Ravens, che giocano la partita della vita per buttarla via con due errori nei secondi finali che mandano i predestinati incontro all'ovvio trionfo finale. Sì, ok, The Gronk zoppica ma recupererà e poi figuriamoci se Brady e Belichick non trovano le alternative.

E i Giants. Troppo uguali a quelli che vinsero il titolo del 2007, come attitudine. Prima parte di campionato ingolfati. Da un certo punto in poi capiscono che sono forti, e da lì si giocano le loro chances in ogni maledetta domenica. 
Come nel 2007, un Eli Manning che una volta per tutte ha trovato la sua identità di fuoriclasse a prescindere dall'ingombrante cognome, fraterno e paterno. 
Come nel 2007, una pass rush mostruosa, imperniata sull'asse Tuck-Umenyiora, con Jason Pierre-Paul che ha rimpiazzato degnissimamente Strahan. 
Come nel 2007, una secondaria discutibile. 
Come nel 2007, le corse sulle spalle di Jacobs e di Bradshaw, classico duo da Smash and Dash. 
Meglio del 2007 i ricevitori. Nicks, Manningham e Cruz sono il miglior trio della lega. 

I Giants arrivano a Indianapolis dopo aver massacrato i Falcons in casa, e dopo aver vinto in trasferta contro le due Top Seed del tabellone NFC, gli strafavoriti Packers (come nel 2007) e i rinati Niners, vincendo il championship ai supplementari con un field goal (come nel 2007). E come nel 2007 partono sfavoriti e giocano con la maglia da trasferta.

La partita è equilibrata. Partono bene i Giants, Manning c'è e la difesa mette fretta a Brady. Ma sotto per 9-0, Brady si sveglia e comincia a non sbagliare più nulla. Fra secondo e terzo quarto dà la solita maledetta idea di giocare con la Playstation contro il livello facile. Non ha bisogno di forzare, la sua difesa ha cominciato a tenere, e il parziale di 17 punti consecutivi sembrerebbe chiudere l'incontro, perchè il playcalling dei Giants pare un po' timoroso, Manning stesso a bordo campo è abbastanza imperscrutabile. La difesa newyorkese poi comincia a riprendersi, a mettere Tom Pretty sotto pressione. Manning porta due volte Tynes a distanza utile. Ma si è ancora sul 17-15 per i Patriots, mancano cinque minuti e poco, e Brady ha la palla in mano, con il match point sulla racchetta e la possibilità di fare un po' di clock management. E proprio in quei momenti, in cui devi far passare il tempo, emerge il fatto che sei arrivato al Superbowl con un backfield composto da Benjarvus Green-Ellis e Danny Woodhead. Cioè con due runner insignificanti, che sono utili per far rifiatare il braccio del loro QB, ma che non sono credibili quando devi guadagnare quattro yards per volta e ammazzare il tempo. Belichick stesso non li conta nemmeno, in quella serie. Brady era già stato zippato con un placcaggio di Justin Tuck (rules...), e aveva lanciato un intercetto di pura spocchia. Ma resta pur sempre Brady. La linea gli dà tempo, un sidestep accademico e un lancio su cui l'iperaffidabile Wes Welker, in plastico avvitamento aereo, mette due mani. 
Condizione necessaria ma non sufficiente. 
Incompleto.
E un altro incompleto sul terzo. Punt. Mesko non angola benissimo, non dà troppa profondità, ma tant'è, i Giants hanno la palla sulle loro 12 yds, con 3:46 da giocare. Per mettere Tynes a distanza di sicurezza servono una sessantina di yards. Ma serve anche gestire l'orologio, non lasciare troppo tempo a Brady, che potrebbe non fare due volte lo stesso errore.

In letteratura queste fasi di gioco sono dette clutch time. Non hai più margini di errore. In queste fasi devi fare una somma di tutto quello che hai e di quello che sei. Classe individuale, alchimia di squadra, motivazioni, determinazione, braccio, gambe, occhio. Cuore.

Come sempre nei pro, lo schema chiamato è ovviamente aperto a aggiustamenti e variazioni sulla base della disposizione della difesa. Quarterback e ricevitori non devono neanche comunicarlo, lo sanno e basta. Se il corner si mette così fai questo, altrimenti quest'altro. Non si spiega in due righe, fidatevi. Ma in quel momento la difesa dei Patriots, che aveva retto molto bene, un errore lo fa. Sterling Moore, il corner di fronte a Manningham, si schiera in modo tale da lasciare al ricevitore la corsia esterna, il cushion fra i numeri stampati sul campo e la linea laterale. E il safety, incaricato del potenziale raddoppio, era ancora più interno, perchè lì doveva stare. Ma il corner no. In quel momento doveva posizionarsi diversamente. Perchè difendere una fade corsa da uno più alto e più veloce di te può essere rischioso.

E Manningham ovviamente infila la sua corsia, aprendosi a sinistra e accelerando. Moore non lo perde in velocità, ma la frittata è fatta. Eli Manning mette quella palla a quaranta yards di distanza avendo un margine di errore forse di dieci centimetri, forse. Proiettile che gira, che si tiene in aria quanto basta. Nulla di più e nulla di meno.Tremendo. Arriva radiocomandato fra le mani del ricevitore, il corner attaccato a lui e il safety che arriva e colpisce. Ma anche a velocità naturale si era visto. Il lancio perfetto. Due piedi in campo, la palla mantenuta in mano. Non si può non ripensare alla leggendaria VelcroCatch di Tyree (ehi, come nel 2007). Trentotto yards in un gioco solo, la palla a metà campo. E il suicidio di Belichick, che chiama un challenge dovuto ma insensato. Il cronista... "Two hands on the ball. Two feet inbound. He maintains possession. What are you looking for?". Il replay conferma.

Alla fine il resto è quasi mancia, il TD di Bradshaw che è fregato dal suo istinto e non riesce a frenare per togliere ancora un po' di tempo. L'ultimo tentativo di Tom Pretty, a cui va l'onore delle armi. E il trionfo di una squadra che non parte mai come favorita, ma con cui bisogna sempre fare i conti. Almeno finchè ci sarà un vecchio burbero come Coughlin in comando, e finchè avranno in campo un talento mostruoso come quello di Eli Manning, che secondo qualcuno deve ancora dimostrare qualcosa.

A Giant win, come nel 2007 ;)


domenica 5 febbraio 2012

La nevicata del 12

Nessun remake del califfo, ci mancherebbe.
Vedere la propria città con un costume che indossa raramente fa un certo effetto.

Non è che uno non sa cosa sia la neve. Ogni tanto ci si va.
Nemmeno a digiuno di neve in città. Un paio d'annetti fa uno sternuto di neve su Roma c'è stato. Poi nel giretto danese di neve ne avevamo la cantina piena. Solo che... solo che dite quello che volete, la neve a Roma è un'altra cosa. Sembra un enorme palla di vetro come quelle che ci facevano vedere i nonni, che ora se ne trovano sempre meno. Piaccia o no, Roma è un assemblato storico e architettonico unico al mondo. E' una sovrapposizione, un periodo storico dopo l'altro, un architetto dopo l'altro, un papa dopo l'altro. E' Roma, punto e basta. E una nevicata come questa non me la ricordo. Quella dell'85 (86?)... sì, ok, mi divertivo con il mio cane, un pastore tedesco di una mole e di una bellezza esagerate. Ma è passato un po' di tempo. Il lato bello di una situazione così è quasi banale. Il panorama, inusuale quando non irreale. Le risate dei bambini di città, per una volta stimolati a mollare tv e videogiochi a casa. L'aria, fredda e diversa. Lo scrocchio della neve fresca sotto i piedi. Lo sfrollare dai rami degli alberi, il più truce dei gavettoni, se capita. Svegliarsi e aprire gli occhi su uno spettacolo come quello in foto.

Roma 4 febbraio 2012 (grazie Carla!)
La folla al parco davanti casa. Slittini, sacchi della spazzatura per il monnezza ski, variante proletaria del bob. Pupazzoni di neve per tutti i gusti. Quelli minimalisti fatti dai bimbi, quelli d'artista, seduti sulla panchina che leggono il giornale, quelli sfatti con la boccia di vino in mano e anche altro in mostra. E i cani nel loro spazio, i vialetti pieni come nemmeno nelle domeniche di sole. Non è la solita Roma, impigrita e ultimamente un po' abbrutita. E' bella e vitale, non so cosa altro dire.

L'altra faccia della nevicata, molto meno romantica e divertente. Già il 20 ottobre 2011 una pioggia un po' più sostenuta della media ha messo la viabilità in ginocchio. Tempi di percorrenza medi quadruplicati, nel caso buono. Qualche giorno dopo, il quadrante nord completamente paralizzato per l'apertura di un grossista di elettronica di consumo con vendita di dicasi novanta iPhone sottocosto. In questi giorni c'è stata la solita saga tutta italiotica di mettere il deretano a massa dando ad altri la colpa della propria totale sciatteria. Una amministrazione mediocre. Uno squallido rimpallo di responsabilità con la protezione civile. Il tipo di confronto in cui speri che arrivi nel mezzo un meteorite a dirimere civilmente la questione. Il sindaco capace solo di lanciare imperativi categorici, dopo essere comparso nelle prime ore dell'immane catastrofe sfoggiando un autoesplicativo look alla Putin. Una pioggia di indicazioni sbagliate: che vuol dire didattica sospesa e scuole aperte? Sua eccellenza lo sa che se lui ordina l'indefettibile utilizzo delle catene e c'è gente che lo ascolta quelli si rovinano gli pneumatici e con tre centimetri scarsi di neve l'asfalto viene massacrato? Sarebbe bastato seguire un normalissimo meteo o televisivo o internettiano. L'arrivo della perturbazione bolscevica era stato annunciato con tre giorni tre di anticipo. Lo spargimento di sale, fatto prima che su twitter fiorissero i canali del tipo #attaccaattacca o #evitateilgra, avrebbe risparmiato un po' di stress alla prole dei Cesari. D'altra parte, non credo che si possa pretendere anche un uso frequente del pensiero strutturato da parte di chi ha come unica preoccupazione la propria immagine e la propria poltrona.

A questo punto aspetto con una certa impazienza una giornata da 43 gradi a ferragosto. 
Fenomeni imprevedibili.

giovedì 2 febbraio 2012

Pasolini

Premetto, doverosamente. Su questo argomento non è mia intenzione fare sfoggio di una preparazione specifica che non ho, nè di esprimere idee o opinioni, se non personali, su un personaggio di una complessità molto più vasta rispetto alle cose su cui di solito mi scappa di esercitarmi. Pasolini, la sua vita, le sue opere, le sue idee e la sua fine non sono argomento di cazzeggio.

Non credo che mai come in quel caso la fine di una persona sia stata funzionale al sistema da lei criticato in maniera radicale, dissacrante e feroce. Quanto ha fatto comodo che Pasolini avesse trovato quella morte, in quel contesto degradato e squallido, in quel modo. L'incastro fra verità ufficiale e evidenze fattuali ancora non ha trovato pace, dal 1975 a oggi. 

Ultimamente (grazie a chi ha caricato materiale su Youtube) ho avuto modo di avvicinarmi al Pasolini regista.
E il percorso tra i film del primo periodo (Accattone e Mamma Roma) e quelli successivi (Porcile, Salò o le 120 giornate di Sodoma) è una descrizione abbastanza efficace di come una sensibilità come la sua, dura, viscerale, evoluta, potesse essere una nota stonata per tutto un establishment, politico e culturale. Ho capito la definizione di intellettuale scomodo. E se l'Italia ne ha avuto solo uno, questo non può essere che lui. Storie che raccontano il sottoproletariato urbano, la meschinità dei sentimenti, la volgarità intrinseca delle persone, la corruzione dell'uomo. In sottofondo Roma che si espandeva brutta e sgraziata nei quartieri popolari postbellici, prati sciatti con casermoni nascenti, foraggio e oro di politici e costruttori. Don Bosco, la Magliana. Negazione di qualcosa che potesse incoraggiare il bello. Personaggi di conseguenza. Sfruttatori di prostitute, ladruncoli, corrotti, borghesucci scipiti. No, Pasolini sembrava non salvare nessuno, forse per il fatto che si muoveva in un contesto in cui l'aspirazione legittima ad un miglioramento pareva ammantata da un perbenismo, una volgarità strisciante, un amore per il soldo e il potere in quanto tali. Forse il suo pensiero non ha perso una briciola di attualità.

Quello che mi ha sorpreso è vedere nei suoi film attori che ho visto in altri contesti. Diretti da lui. Non ho visto la parte fatta da Totò in Uccellacci e uccellini, ma vedere Anna Magnani in Mamma Roma è qualcosa di bello. La forza espressiva di Nannarella è inarrivabile, la sua capacità di essere una leonessa cattiva e ferita insieme crea empatia anche nei riguardi di un personaggio che ha un'etica almeno discutibile, al sentire comune. Ex prostituta, madre prima assente e poi ossessiva, traffichina e ricattatrice. Ma quanto poteva essere brava.

E quegli attori che siamo abituati a conoscere sotto altra luce, poi.
Paolo Bonacelli, fantastico avvocato di Johnny Stecchino ("I'ttraffico. Troppe macchine!"), è il reggente depravato (a dir poco) in Salò. Una recitazione talmente perfetta, una prova di cattiveria e negatività.

Alberto Lionello e Ugo Tognazzi in Porcile. I due nazisti ripuliti che passano da avversari a complici, ognuno dei due arrivando a nascondere o dimenticare l'inconfessabile che può danneggiare l'altro. Una prova impressionante di Lionello, maestoso nella sua caratterizzazione hitleriana del personaggio. 

Il volto pasoliniano per eccellenza ovviamente è Franco Citti, che ha lavorato con PPP in molte occasioni. Suo fratello Sergio collaborava nelle sceneggiature. Citti aveva lineamenti popolani, induriti, caratteristici. L'istantanea che mi resta più in mente su Franco Citti è la scena in cui Accattone, ubriaco e offeso, si sciacqua la faccia nel Tevere per poi tuffarla nella sabbia. Il bianconero regala un effetto che resta impresso, come si vede dal "capture" qui sotto

Franco Citti, Accattone, 1961

Per capire in una frase i motivi di attrito fra uno come lui e una cultura dominante è indicativa l'ultima uscita del protagonista della seconda storia intrecciata in Porcile, il selvaggio cannibale catturato sull'Etna, prima di essere lasciato esposto ad bestias. "Ho ucciso mio padre. Ho mangiato carne umana. Sto tremando di gioia". Mi pare sufficiente.

Per chi volesse affrontare un personaggio ostico e unico, la rete è una miniera. Mai come stavolta però vale la solita cautela di esaminare un numero congruo di fonti, e fare le dovute verifiche.

Bello veramente l'omaggio di Nanni Moretti in Caro Diario, non posso non segnalarlo