venerdì 15 aprile 2011

Il Giappone e noi

Disclaimer. Umore caustico, post di conseguenza.

Ho lasciato sedimentare qualche idea nel corso dei giorni, per arginare l'impatto emotivo che può avere una tragedia come quella accaduta in Giappone. Il dato umano di questa tragedia mi ha fatto riflettere. Ogniqualvolta ci si trovi davanti a cose simili, mi torna in testa il passo di Leopardi, Operette Morali, Dialogo della Natura e dell'Islandese. Non siamo nulla. Il pianeta non è pensato per noi, incidenti molecolari. Una dorsale oceanica che fa un po' di stretching, a suo modo, toglie di torno città e persone in un amen o poco più. Ovviamente il dolore per ogni singola tragedia umana ha tutto il mio rispetto.

Due osservazioni, però, mi ballonzolano in punta di dita e cerco di strutturarle qui di seguito. Rileggersi la prima riga, ribadisco.

Non ho visto, stranamente, spettacolarizzazioni del lutto e della tragedia, pose dei politici in lacrime accanto ai familiari delle vittime, promesse di new town, imprenditori rampanti che gongolano al grido di "Evvai, quando cazzo ricapita un 8.9 della scala Richter con uno Tsunami di 10 metri che spolvera via pure una centrale!". Non li ho visti. Ho sentito dei politici che si scusavano, che chiedevano sì aiuto ma che fidavano sulla volontà di ricamminare sulle proprie gambe prima possibile. Ho sentito politici invitare alla chiarezza sulla diffusione e la gravità delle radiazioni, prendendo sì i tempi imposti dalla prudenza, ma arrivando a dare un quadro condiviso della gravità della situazione, giorno dopo giorno, guasto dopo guasto. Ho visto che decidere e agire si può anche fare in tempi stretti, come testimonia il ripristino di vasta parte della rete autostradale danneggiata (viene da pensare alla SA-RC, alle varianti di valico, a tanti cantieri eterni). Certo, in quel paese un politico che sbaglia ne prende atto e si dimette. Qui ultimamente c'è una fioritura di soggetti tali per cui spesso si faticano a trovare non definizioni spicce, ma proprio categorie esistenziali. E siamo avanti, lo ammetto. Non ci sono altri paesi che possano permettersi Scilipoti.

Seconda osservazione... Il nucleare. Cerco di limitarmi alle evidenze. Il discorso sulla profittabilità di quel tipo di investimento è complicato. Scuole di pensiero rispettabili confliggono con argomenti validi a supporto di una tesi o dell'altra. Ogni osservazione sulla sicurezza è purtroppo esposta ai fatti. Chernobyl fu un errore umano in un contesto decisionale inquinato (interessanti i documentari prodotti, passati anche su Quark). Fukushima è una centrale di vecchia generazione, ora le scelte costruttive e le misure di sicurezza sono certamente migliori. Non mi pronuncio su questo. Noto incidentalmente che un paese progredito, disciplinato, serio ha comunque costruito la precondizione per un incidente sicuramente non voluto, sicuramente non provocato dall'errore umano (decisionale o operativo). Ma questo incidente in questo momento ha impatto sulla vita delle persone, sul mare, sull'ambiente, sulla catena alimentare di vari ecosistemi, e nessuno è in grado di circoscrivere questo impatto sia a livello geografico (i pesci hanno il brutto vizio di nuotare) sia a livello temporale (le radiazioni non le smaltisci oggi per domani). Quindi, con tutte le cautele del caso e con tutte le contromisure possibili che si possono attuare, esiste l'evento imponderabile. Nessuno di noi può dire che se la centrale esposta alla doppia azione di terremoto e tsunami fosse stata di più recente costruzione, i danni sarebbero stati di minore entità. E diffiderei di chi lo dice, personalmente.

Ma a questo punto il discorso diventa altro. Diventa calare il nucleare in un contesto come quello italiano.
Tenere presente il disclaimer della prima riga.
Uno dei punti cardine nella pianificazione di un investimento di questa portata (parliamo di un insieme di centrali, non di una sola) è la redditività dell'investimento stesso. Parliamo di controllo dei costi, quindi. A mia memoria, non esiste nessuna opera pubblica che nel tempo, per cambiamenti di condizioni di mercato, per variazioni in corso d'opera, per accontentare potentati locali, per imprevisti veri e propri, rispetti le stime di budget iniziali. Esempi ce ne sono a pioggia. Le infrastrutture dei mondiali 1990, costi mediamente doppi, alcune mirabili cattedrali nel deserto tuttora incompiute. Qui stiamo parlando di un investimento iniziale dell'ordine dei miliardi di euro. Un ritocco dei costi (nell'ipotesi anche remota che sia solo per motivi veri) rischia seriamente di spostare l'ago dai profitti alle perdite. E ripeto, scuole di pensiero rispettabilissime sostengono che questo tipo di energia, prescindendo dai rischi, è tutt'altro che a buon mercato. E finchè parliamo di costi e profitti, il discorso può avere una validità più generale.

Le caratteristiche ambientali però giocano un ruolo non trascurabile. Una centrale va costruita, prima di tutto. Cemento, tanto cemento e pure di qualità adeguata. La catena del cemento in Italia è spiegata molto bene da Saviano (Gomorra, cap. "Cemento Armato"). Un investimento di miliardi di euro è una bella mucca da mungere. Le forniture? Beh, i campioni sottoposti a ispezione saranno ovviamente conformi agli standard, per il resto... ma dai, tanto che vuoi che succeda? E poi figurarsi se in Italia non ci sono commistioni fra controllori e controllati. Abbiamo una tradizione da difendere. Si parte dal Vajont, quando il geologo del ministero era anche a libro paga del costruttore, e il costruttore stesso mandava perizie e certificazioni sullo stato di rischio. 
Altro aspetto simpatico. Gli americani direbbero "Location, location, location". Dove costruire, nel caso? Al momento la discussione è solo congelata a livello istituzionale. La formulazione che comunque stava emergendo era contemporaneamente comica e ipocrita. Lo facciamo, ma deve essere d'accordo la regione che se lo accolla. Diventa un campionato nazionale di nimby (Not In My BackYard). Gaius facere alio deretano tam facile esse.

Non siamo capaci di evitare che un motociclista muoia per una buca sull'asfalto, che cosa vogliamo tentare di fare?


venerdì 8 aprile 2011

Il gelato allo zabaione

Complice l'arrivo anticipato di un bel tempo estivo, ho ricominciato a mettere il naso in qualche gelateria. In zona ne ho di valide, devo essere onesto. Gusti classici, qualche concessione etnica (e quando si va sulle diverse nuance di cacao si trovano cose buone). Allontanandomi un po' ce n'è anche una con gusti molto ricercati (pesca col vino, pera e cannella solo per citare quelli che mi ricordo) che puntualmente mi costringe al bis ogni volta.

Ma nessuna di queste gelaterie prenderà mai il posto di una piccola latteria a conduzione familiare dalle parti di Piazza Bologna. Una entrata minuscola, nessuna insegna, due tavolini di numero su una stradina ombreggiata, di quelli normalissimi, rotondi con tre zampette sottili, e le sedie con la seduta scomodissima, di plastica intrecciata, che quando ti rialzi hai lo stampo su pantaloni o cosce. Se ti rialzi, perchè in quel bar il tempo ce lo spendevo talmente volentieri che alla fine la coppia di proprietari, un po' avanti con gli anni, mi aveva pressochè adottato.

Quel buchetto aveva anche la pretesa di essere una gelateria. Due gusti più panna fatta praticamente ogni due ore, perchè poi si rapprendeva un po'. Cioccolata, niente di che. 

Ma lo zabaione!

Qualche cosa di mistico. Intanto non era a vista. Non è nemmeno detto che ci fosse sempre, non era un prodotto industriale. Da marzo a ottobre, e quando voleva lui. Entravamo, chiedevamo solamente "C'è?" e il barista, con aria da cospiratore carbonaro si assentava un attimo per rientrare con una vaschetta metallica che conteneva quella specie di oro freddo. Nemmeno cremoso: denso, pastoso, che il cucchiaio ci restava incastrato dentro. La cialdina biscottata veniva annientata subito, quasi non si poteva estrarre dal grumo giallo. Uova, zucchero, marsala. Basta. Ma il palato ne godeva cospicuamente, fidatevi. 



Sono stato iniziato a quel cibo degli dei verso i sette anni, quando passavamo da quelle parti con mia mamma e mio zio, capace di mangiarne un quantitativo tale da indurre il barista al jackpot "Se ne mangi un altro te li offro tutti!". Poi nel tempo ci sono andato da solo, con amici, con i primi flirtini adolescenziali. Si, ok, non che fosse propriamente romantico, ma se devo fare il piacione è una cosa, se vuoi una esperienza gelataia irripetibile abbi la compiacenza di fidarti, o eventuale fanciullina dell'epoca.

Nel tempo la configurazione più abituale con cui facevo i miei raid dallo zabaionaro si stabilizzò. Io, il mio indissolubile amico L, e il mio cane, ingombrante e bellissimo pastore tedesco, l'unico cane che io abbia conosciuto che avesse il senso dell'ironia nello sguardo, nel portamento (sebbene regale, era stupendo), negli atteggiamenti. Era un cane allegro!

Di solito arrivavamo dal tizio con un robusto appetito, dovuto all'età adolescenziale, al fatto che avevamo già scaricato il contacalorie dopo un paio d'orette di allenamenti di football a villa Torlonia. E poi c'era la fama dello zabaionaro. Vai, nemmeno devi chiedere. Ti siedi, ti portano la coppona da cui deborda quel preparato divino. E per quei dieci quindici minuti non avevi argomenti di conversazione. Un mugugno concupiscente ogni tanto, tra una affondata di cucchiaio e l'altra. La signora usava anche la gentilezza di portare una scodellina di acqua al cane, accucciato a fianco a me. Raramente non si faceva il bis, mi pare chiaro. Come mi pare chiaro aggiungere che da quando non c'è più quel baretto, per una specie di rispetto per l'arte, non ho mai più mangiato un gelato allo zabaione. E per tutti coloro che hanno avuto quella fortuna, quello zabaione è rimasto una specie di termine di paragone, come aver visto giocare Maradona, aver visto guidare Senna a Montecarlo: una delle tante declinazioni che il termine perfezione può assumere in questo mondo.

Anche se me lo aspettavo, per limiti di età, ma quando oggi tramite StreetView ho messo il naso lì e ci ho trovato una lavanderia ci sono rimasto un po' così. E devo anche dirlo a L.