venerdì 30 aprile 2010

Il camorrista

Questo film ha una storia singolare. Uscito nel 1986, ritirato con strascichi giudiziari in pochissimo tempo, rispolverato dopo qualche anno dalle televisioni.Il film è un racconto romanzato che si agganciava alla realtà dell'epoca. Riferimenti a fatti e personaggi noti, solida conoscenza di comportamenti sociali e connivenze politico-imprenditoriali.

Le due teste pensanti di questo film sono personaggi di indubbio spessore artistico e culturale. La regia è di Giuseppe Tornatore (che anni dopo ci avrebbe regalato l'indimenticabile Nuovo Cinema Paradiso), il plot è stato sviluppato con la collaborazione del grandissimo Giuseppe Marrazzo, uno dei migliori giornalisti italiani degli anni Settanta-Ottanta, un eccellente professionista che si è sempre battuto con le sue legittime armi per contribuire a creare una cultura della legalità nelle regioni del sud, documentando quali drammi e quali distorsioni socioculturali creassero le varie criminalità organizzate e le loro perverse alleanze.

Il film si presta a molte letture diverse, alcuni personaggi offrono il fianco anche al grottesco, quando non ad una comicità più truculenta che altro. Ma l'intersezione con la realtà è ben presente e merita approfondimenti. Anche Roberto Saviano ci racconta in Gomorra come frasi, comportamenti, perfino refrain musicali siano ormai componenti quasi codificate di un registro linguistico locale, di una sorta di jargon file usato al confine fra il legale, il paralegale e il malavitoso. L'ascesa del Professore viene scandita da momenti che in una realtà comunque distorta vorrebbero ricalcare l'iter di formazione di una leadership criminale, di una successione sanguinosa ad un trono. "O' Malacarne è nu guapp'e cartone", forse la frase più nota del film, dipinge in modo sin troppo ritualizzato quali fossero le modalità di avvicendamento ai vertici delle associazioni, come si rompevano e si stabilivano equilibri. Col sangue. E con l'omertà, come appare ostentatamente durante la scena dell'omicidio del boss calabrese, dove tutti i carcerati in cortile per l'ora d'aria si girano uno alla volta, per non vedere quanto stava per succedere.

I riferimenti al reale si limitano all'identificazione di un po' di personaggi, a volte accennata, spesso al minimo indispensabile, sebbene molto chiara per chi conoscesse la cronaca dell'epoca. E' fedele come ricostruzione dei sistemi operativi e della contrapposizione cruenta fra i clan e racconta bene il livello di penetrazione delle organizzazioni criminali in tutti gli aspetti della dinamica sociale del territorio, dall'imprenditoria alla vita comune. Il personaggio principale (chiaramente ispirato a Raffaele Cutolo) nel tempo aumenta il suo potere, cementa col sangue la sua leadership, ma resta comunque lo sconfitto della storia, chiuso definitivamente fra quattro mura e lasciato solo anche dalle persone più vicine. Buoni attori, colonna sonora volutamente ossessionante. Un film onesto, con qualcosa da raccontare.

Un film che ebbe vita brevissima in sala e una notevole rivalutazione postuma, un po' come Febbre da Cavallo. Ma questa è un'altra storia...

giovedì 29 aprile 2010

Meditando

A volte alcuni spunti di semplice quotidianità mi danno più fastidio del necessario, mi sembrano quasi campanelli d'allarme che da semplice individuo magari spostano poco, ma come ripple effect indurrebbero qualche riflessione più profonda su quello che abbiamo intorno.
Cerco di pormi in punti di vista diversi dalla mia specificità. Non ho motivi per lamentarmi. Come molti, potrebbe andare meglio ma anche no. Ma i segnali che vedo adesso rispetto alle premesse che avevo in mente una decina di anni fa hanno un che di fastidioso. Un pungolo, un richiamo a dare attenzione a cose che non ho fatto nulla per rendere nè peggiori nè migliori, ma che non mi piacciono. E per un puro caso, o magari per una questione di tempo, non mi coinvolgono in prima persona.
La crisi è un concetto talmente vasto che esula anche da dati numerici, sebbene crudi ed espressivi. La parola greca significa cambiamento, senza connotazioni di altro tipo. Portare qualcosa da uno stato ad un altro. Che sia una dinamica sociale non conta, il concetto è generale.
Mi dà fastidio vedere il predominio sistematico della prevaricazione sulla ragionevolezza, ho sinceramente in odio gli stereotipi che ormai cercano di codificare anche la mia vita secondo un modello che non mi appartiene nè culturalmente nè moralmente.
Consumismo urlato, ottimismo ostentato oltre la soglia della stupidità, approccio superficiale su problemi che ti faranno pagare quell'approccio per il resto della tua vita. Tutto di una complessità talmente ampia che rende impossibile ogni ragionamento sistematico.
Non riesco ad avere un quadro organizzato, qualcosa che mi permetta di mettere in fila i concetti, di dare e pormi delle priorità e degli obiettivi. Non accetto di vivere in un sistema che sia gestito perennemente secondo una logica emergenziale, ne ho un fastidio profondo. Ma per quanto impegno uno possa profondere, vince la statistica e le cose vanno così. E chissà per quanto, ancora.
E chissà per quanto, maledizione, vedrò la persona perfettamente normale come aspetto, vestiario e lessico, chiedere alla cassiera del supermercato se può fare un parziale del conto, e lasciare in cassa quelle due confezioni di surgelati, quelle tre mele. Ogni volta provando lo stesso fastidio.

lunedì 26 aprile 2010

Il bicchiere della staffa

Qualche tempo fa, quando ancora aveva senso la locuzione "premio di produzione", approfittai del suddetto evento per rimpiazzare la vecchia tele che aveva avuto un volgare problema elettrico la cui riparazione, com'è costume, avrebbe ecceduto l'acquisto di una nuova apparecchiatura. Ergo entrai nel tunnel degli schermi piatti.

Non ne capisco una emerita e non entro nella descrizione del gioiello della tecnica che mi acquistai tutto contento. Funziona, quest'è. Nemmeno sapevo che aveva già integrato il decoder per il digitale terrestre, non m'ero neppure posto il problema.
Questo per sgomberare il campo da eventuali equivoci su competenze che non ho.
Insieme alla tele compriamo anche la staffa adatta al modello per attaccarlo alla parete, più per oggettive necessità di spazio in casa che per emulare gli scenari descritti da Bradbury in Fahrenheit 451.

L'anno prima, tra l'altro, la mamma mi aveva regalato un trapano wireless fichissimo, con percussore e un set minimale di punte che ho provveduto ad ampliare nel tempo a seconda delle necessità. Insomma adesso copro dallo smontaggio delle corazze dei carri armati fino alle otturazioni dei molari con lo stesso apparecchio.

Mi studio un po' le istruzioni della staffa. Grugnisco, valuto, simulo. Mi metto in opera. Da trapanatore bravo, ho sempre in tasca la livella e in testa un po' di buon senso. Quindi non è che buco subito il muro con punte da otto o da nove. Gentilmente creo un pertugio con la canonica punta da sei, faccio le mie verifiche, poi armo l'arma letale e dove devo bucare buco. Insomma, la parte di fissaggio a muro della staffa, che è praticamente identica a quella in figura, farebbe scomodare quasi un bel perfetto.
Bon. Rimuovo i due supporti mobili, e mi studio come adattarli al plateau retrostante al video. Chiaramente i braccini metallici devono potersi muovere a seconda di come vuoi orientare lo schermo, quindi hanno un meccanismo che gli permette un solo grado di libertà, per regolare l'angolo di visione e non vedere ectoplasmi sul nuovo prodigio al plasma (forse).
Ottimo. Dal sintetico foglino di istruzioni vedo che alla convergenza dei braccini metallici ci sono due viti Allen. Ne so quanto prima. Se bricolassi in casa con wikipedia accesa, alla voce "vite Allen" troverei:

Esagonale o a brugola o Allen o TCE (Testa Cava Esagonale): la testa ha un foro esagonale e l'utensile è costituito da una barra di sezione esagonale piegata a L o a T (chiave a brugola o imbus) oppure inserita su bussola con innesto femmina da usare con apposite leve e cricchetti.

Miss "Testa Cava Esagonale" mi impediva un accesso agevole ai fori in cui mettere le viti da attaccare sul retro del display, quindi per facilitarmi il lavoro penso che non c'è nulla di svitabile che poi non possa essere riavvitato. Perfetto. Chiavettina che chiude dietro, chiavettina che chiude davanti, cerco di svitare la Allen. Tic tic. Scatta a vuoto e ovviamente resta lì. Magari le due chiavettine non sono così apposite come dice wikipedia. Una sì, aderisce perfetta. L'altra ha un po' di gioco. Bene, se vuoi la guerra...
Con l'area di sufficienza di quello che vuole sbrigarsi con queste minuzie che ha altro da fare, frugo nel set di punte/chiavi del trapano. Eccola, è lei. Perfetta. Seduto sul divano. Serraggio chiavetta a trapano. Stringo forte la staffa fra le cosce. Incastro la chiavetta sul retro della bastardissima testa cava. Trapano pronto in mano destra. Con un'espressione a metà fra Rambo prima di un attacco ai vietcong e Wile Coyote prima di un assalto allo struzzo con l'ultimo ritrovato ACME, metto la potenza del motore su "percussione". Non si scherza niente, qui.

Fuoco!

In una frazione di secondo, appena aziono il trapano, la staffa ruota con velocità angolare ragguardevole e mi si stampa in fronte con un rumoraccio sinistro. Miiiii che dddolooooreeee!!!!
Qualche secondo e con voce da urgenza inderogabile chiamo moglie che era in altra stanza... "Mi porteresti del ghiaccio per favore?" Come risposta ottengo un pacato "Vuoi farti un Martini adesso?".... "Mi sono fatto malissimo!" Borsa ghiacciata sulla parte per un dieci minuti... Crema opportuna applicata topicamente, ma con tutta la buona volontà per due giorni ho avuto stampata in faccia la disposizione delle varie vitarelle del braccetto. E stranamente un notevole mal di testa.
Cara grazia che avevo addosso gli occhiali e non mi è successo nulla.

Grazie, Mr Allen!

giovedì 22 aprile 2010

Last Mile Revolution!

Fra giugno 2000 e gennaio 2001 ho avuto una esperienza lavorativa a dir poco singolare. Tante sfaccettature diverse, ognuna con annessa lezioncina. Il contesto era quello di una nuova azienda di telefonia fissa e servizi internet, la casa madre una finanziaria americana dichiarante la propria mission nelle telecomunicazioni in Europa. Offerta economica molto sopra media e la singolare possibilità di lavorare al centro di Roma, nel rione Regola. Ok, scordarsi l'automobile, ma andare a prendere il caffè a Via Giulia (magari fianco a fianco con Carlo Verdone) aveva il suo appeal. Un paio di volte venni raggiunto anche dalla coniuge, che aveva una supplenza al Virgilio.


Insomma, la location era decisamente irripetibile. Palazzo quattrocentesco, androni affrescati, corrimano delle scale scolpiti e decorati, inquilini nobili. Si pranzava a Campo de' Fiori, riunioni in piazzetta, break lunghi anche a piazza Navona o verso il ghetto. Il paradiso, per chi ama Roma.


I colleghi erano divisi in varie città, dove l'azienda aveva poli di sviluppo (che un catasto poco lungimirante avrebbe definito scantinati) o phone center, e dove cominciava a porre in opera infrastrutture proprie anche per dare servizio all'utenza residenziale, sperabilmente ansiosa di fuggire dal monopolista.


Il gruppetto di colleghi di Roma era composto da persone deliziose, con le quali ci si sente e ci si frequenta ancora, accomunati dalla strana sensazione di essere usciti tutti, chi prima chi dopo, da una vera e propria trappola ben congegnata. Infatti il deus ex machina di tutte le Operations era un personaggio a dir poco singolare. Vero cowboy da piedi sulla scrivania, occasionalmente ripulito in giacca e cravatta. Approccio "Se questa cosa non funziona entro subito, caccio via tutti". Insomma, a dir poco sapeva come mettere pressione. Paradossalmente ho ricavato anche una crescita professionale e personale da quel confronto. Ottenni molto presto il suo rispetto, anche se cominciai a fiutare il bluff dopo un paio di mesi. Pretese tecniche assurde (tutti i servizi su un unico server non ridondato, infrastrutture di rete risibili, completa mancanza di sensibilità su qualsiasi tema di security), comportamento molto spesso oltre le soglie del mobbing, mascherandosi dietro ad una specie di sacro fuoco da pioniere dell'Internet libera. Onestamente imparai un bel po' sia sul mero dato tecnico, che sulla capacità di gestire la pressione e di essere propositivo all'interno della squadra, con un minimo di leadership su quello che gestivo in prima persona. Riuscii ad avere abbastanza presto un'altra offerta che chiaramente accettai, con il rimpianto per il gruppetto di amici che lasciavo in brutte acque. Inevitabile fallimento dopo poco più di un anno, con strascichi legali ancora presenti.


Ma riuscimmo lo stesso a divertirci di brutto, e questo spirito, questo gusto difficile per trovare il lato comico in ogni sfiga, a volte è veramente un'ancora. Personaggi da galleria ce n'erano a pioggia, anche qui. Il "quasi tossico" che a volte si imboscava nel bagno comune dove l'aria rimaneva irrespirabile per un bel po', a meno che non si cercassero esperienze alternative. Il gruppettino di sviluppatori (il contatore alfanumerico!), la varia umanità che abbiamo avuto modo di conoscere, le missioni impossibili portate a casa lavorando di sabato, o di notte.


E la ciliegina sulla torta... Posso dire di aver lavorato nell'unico ISP che a guardia della sala apparati non aveva la vigilanza. C'era la portiera!!!

mercoledì 21 aprile 2010

Who needs enemies... /2

Nel tempo ho appreso che il football non è uno sport per tutti. Anche a mie spese, e per un prezzo neppure banale. Ma mi divertiva troppo. Iniziai che ero poco più che un ragazzino, robusto e incosciente quanto bastava. La passione fino al midollo che ho per quello sport inizia intorno ai tredici anni, quando per la prima volta V si presentò a scuola con un pallone arancio evidenziatore, di forma strana. Troppo snello e appuntito per essere da rugby. Il primo anno passò più o meno nello studio delle regole, con le benedette telecronache della domenica mattina su Canale 5.

Ogni tanto V e io riuscivamo a coinvolgere i compagni di classe in queste strane fagiolate a Villa Borghese, nel pratone disseminato di pini secolari dove si andava anche a giocare a calcio. Verso i quindici anni, mentre nella giovanile della mia squadra giocavo addirittura guardia, cominciavo a prenderci gusto con i lanci. Ma tanto.


In un bel pomeriggio primaverile, riusciamo a proporre la fagiolata a football in luogo della solita, scontata partitella a calcio. E diamine, in sei contro sei c'era da largheggiare. Schemi obbligatoriamente semplici, essendo tutti pivellini. Avevo in squadra R, più fondista che sprinter, ma che comunque aveva una velocità rispettabilissima. Inoltre, per definizione di fondista, era ancora fresco come una rosa quando noi eravamo prossimi all'infarto. Ennesima serie in attacco. Usavamo i pini secolari per individuare le yards. Certo, non puoi non vederli. Bene. Chiamo gli schemi, e il count per la partenza. Hut! Arretro mentre i ricevitori tentano di smarcarsi. R si gira verso di me, perchè il difensore che lo marcava era scivolato e lui era rimasto solo, libero e bello per sei punti facili facili.

Con la mano faccio segno di andare più lontano, un bel lancione lungo lì ci stava tutto. R sprinta, con la testa girata verso di me che avevo appena lasciato partire una onesta fucilata. Tutto perfetto. Quello che ti aspetti ora è un over the shoulder da manuale, come quelli di Dan Marino che vedevo alla tele la domenica mattina. R prosegue, sempre guardando indietro, concentrato sulla traiettoria della palla che stava per arrivare morbida morbida tra le sue mani. A piena velocità. "Miaaaaaaa!"


Un ricevitore deve sapere che c'è sempre un difensore fra lui e la meta. E' quel giocatore che tecnicamente chiamasi free safety, ultimo baluardo fra te e la gloria. Tonfo sordo. Un pino secolare come free safety non si pone troppi problemi. Magari non è mobilissimo. Magari non intercetta il lancio. Ma sta lì, non si toglie. R lo centra a piena velocità, con una buona ventina di metri di rincorsa. Bastardi fino agli elettroni, noi tutti sdraiati a terra a ridere.
R ovviamente tramortito. L'esito del frontale con il pino era evidente, lui era arrivato ad una velocità tale per cui sulla faccia si trasferivano anche eventuali cuoricini scolpiti sulla corteccia da amanti in transito. "Oddio me sento male". E ti credo, povero. "Vedo tutti teschietti verdi". Come teschietti verdi??? Rassicurati dalla demenzialità dell'osservazione, scortiamo R alla fontanona dietro le giostrine, dove con cameratesca solidarietà lo ritempro, perchè come V osservava anni dopo "San Mauro Arcangelo i traumi cranici li cura con l'acqua".

Lesson learned. C'è un motivo per cui si usa il casco.

PS. Niente di rotto, per fortuna. Solo una signora botta.

martedì 20 aprile 2010

Le vite degli altri (reloaded...)


Estraggo dal Morandini qualche linea sul film Le Vite degli Altri

[...] Frutto di quattro anni di ricerche e di lavoro sulla sceneggiatura, questo primo film di un giovane regista dal cognome altisonante (con antenata italiana) è un'opera prismatica e inquietante che potrebbe diventare il modello di un film riuscito a tutti i livelli. [...] Wiesler ha l'incarico di mettere sotto stretta sorveglianza l'inconsapevole Dreyman. Nel pedinarlo e intercettarlo per mesi, il primo comincia a farsi un'idea diversa del regime che serve e delle vite degli altri cui ha legato la sua. Nel frattempo anche l'altro cambia. Epilogo di tristezza emozionante. Girato in 37 giorni nel 2004 in 35 mm. Cinemascope (ARRI-Kodak, fotografia: Hagen Bogdanski) e un anno di postproduzione. [...]

Questo film è un capolavoro, veramente a thing of beauty. Segnalatomi da fonte autorevole. Acquistato il dvd. Visto, apprezzato tantissimo. Il film è bello e toccante, non ci sono altre parole. La visione è consigliata a tutti ma non in momenti di umore triste perchè non aiuta.

Il remake casareccio di cui mi sono ritrovato ad essere involontario protagonista (proprio nei panni dell'agente intercettatore Wiesler) forse non arriva a quelle vette di profondità e di lirismo, ma ha un suo perchè.

Giornata in ufficio come tante. Dopo pranzo, ignaro del fatto che mi attendesse qualche minuto di lavoro come agente della Stasi addetto suo malgrado alle intercettazioni, mi reco dove ci può anche stare che uno si rechi dopo pranzo. In sintesi, ci sono dei momenti in cui un uomo deve rimanere solo. Mi ritiro nel luogo. Dopo poco, sento parlottare fuori dalla mia porticina, ovviamente chiusa (ci mancherebbe). Il tipo (non lo chiamo Dreyman per pietà) bussa. Non rispondo. Scuote la maniglia. E' chiusa, chiaro. Entra nella toilette a fianco e continua una sontuosa litigata telefonica con la sua tipa (forse. Forse non solo sua...). E non proprio sussurrando.

Le cose che avrei poi riportato diligentemente nel brogliaccio da consegnare ai superiori:
1) La tipa è di Fiumicino
2) Diciamo che è in atto un corteggiamento un po' complicato
3) Questa sa farsi rispettare. E ha una vita sociale un po' partecipata, sembrerebbe.
4) Non dò troppe speranze a lui

Questa è la fredda sintesi di quanto ebbi il privilegio di apprendere in quei minuti. Peraltro rimasi pietrificato al mio posto, diciamo così, sia perchè ero un minimo curioso di sapere dove andasse a parare la conversazione, sia perchè avevo paura di incontrare il tipo uscendo dal bagno, cosa che avrebbe provocato un imbarazzo truce, almeno per me.

Andando nel dettaglio, alcune fasi hanno la loro dignità letteraria. La tipa metteva in riga il malcapitato senza problemi, perchè lui alternava salite di tono a mielose correzioni di rotta.
La scena madre... "Ah, perchè tu come lo chiami uno che si presenta da te a Fiumicino alle tre di notte solo per portarti una rosa? E poi c'eri, perchè ho visto la luce accesa".
Calma e gesso. Come lo chiamiamo? A tutta prima mi gioco un bel "Pulciaro!". Una rosa? Hai speso più di carburante, poco ma sicuro. Poi mentalmente pensavo fra me e me che se alle tre di notte la luce era accesa e non rispondeva al citofono, poteva starci che si era addormentata davanti a un bel libro o davanti alla tele, ma poteva pure starci che non dormiva e non poteva rispondere al citofono. Qui non è poi difficile farsi due più due, siamo realisti.
Non sapevo più come fare per trattenermi. E ci ho messo la firma. La conversazione era talmente accesa che lui ha cominciato a farfugliare a monosillabi per un po'. E quando alla fine ha messo giù un ossequioso "Ma tu lo sai in fondo cosa penso di te, vero?", io ho urbanamente chiosato azionando lo sciacquone.

Adesso, nella massima comprensione dei problemi altrui ho solo una domanda che impelle... Ma perchè quello ha fatto l'implicita assunzione che io fossi sordo?

Con delle scuse doverose per il film Le Vite degli altri, che è veramente stupendo.

lunedì 19 aprile 2010

Le cose a chiamalle cor nome ggiusto!

Su un autobus, begli annetti fa

Scambio fra signora sussiegosa e autista.
"Scusi, questo passa per il Quadraio?"
"A signò, se chiama propo Quadraro".
Amen


NonLuoghi


Da fidanzatini, facemmo un bel viaggio in treno acquistando un biglietto a zone e scorazzando una ventina di giorni in varie parti d'Europa.
In Danimarca a far visita a L, amico storico e indissolubile, a Berlino per passare un po' di tempo con G, compagno di liceo che dopo la maturità, per citare Manuel Fantoni, optò per il mare. Poi G venne con noi qualche giorno a Praga, dove ci salutammo.

Al tempo, L viveva ad Aarhus, seconda città della Danimarca. Aarhus è una ridente (diciamo) cittadina nella penisola dello Jutland, ammantata dal perenne odore di luppolo in lavorazione negli stabilimenti Ceres, mentre Kobenhavn (ribattezzata in seguito "l'antica Felsina"), è sulla Seeland, l'isola ad est dello Jutland di fronte ai paesi scandinavi.

Primo siparietto alla biglietteria di Roma Termini, qualche giorno prima della partenza. Io ero piegato a elle per parlare all'operatore dall'apposita finestrella.
"Salve, dovremmo andare ad Aarhus, in Danimarca".
In risposta ottengo un secco: "Scritto come?"
"Annamo bene", faccio fra me.
"A...a...sì, due a all'inizio...erre...acca...u...esse...Guardi, forse al posto delle due A potrebbe anche trovare una A sola con una specie di pallerchio sopra".
Il tizio interpella l'oracolo telematico...
"Dovete da passà pe Copenhagen".
E da lì a nuoto, stavo per dirgli... Ma presi la situazione in mano, e dettai le tratte con autorità derivata dall'aver fatto quasi lo stesso giro due anni prima. "Facciamo così: Roma Monaco, Monaco Amburgo, Amburgo Flensburg che è il confine, e Flensburg Aarhus".
Sul biglietto trovammo una botta di supplemento fra Monaco e Amburgo. A Monaco capimmo perchè. Tre minuti prima della partenza, sul binario si presenta una specie di astronave bianca e rossa, l'ICE. Il simpatico operatore ci aveva piazzato sull'alta velocità locale (in effetti pareva guidasse Schumacher, si stava costantemente sui 350). Per frenare ad Amburgo probabilmente avrà buttato l'ancora a Gottingen... E ovviamente tre ore di attesa ad Hamburg HBF, non il top.
Insomma dopo un bel totale di venti ore di viaggio da Roma, arriviamo ad Aarhus dove ci aspetta L. Passiamo qualche giorno con loro, poi decidiamo di fare una puntata a Kobenhavn perchè merita. Ma in alta stagione non è banalissimo trovare alloggi ben collegati con un rapporto qualità-prezzo accettabile. Ci aiutò la moglie di L, con gentilezza tutta danese, che fece tutte le prenotazioni necessarie, ivi incluso un ostello in un posticino a venti minuti di treno dal centro. Ishoj.
Esperienza a dir poco surreale. Per essere collegata bene lo era, nulla da dire. Ma l'ostello era praticamente un centro sportivo deserto in tutto e per tutto. Arriviamo e il custode, con l'aria di quello che si chiedeva "Ma questi come ci sono arrivati qui?" ci guida nella nostra stanza, praticamente l'intero spogliatoio di una squadra di calcio. Grosso come una palestra, con tanto di docce collettive dietro alla parete separatoria. Uno spogliatoio vero e proprio, appunto. Accostammo i due letti se non altro quasi per supporto reciproco, perchè non c'erano poi problemi di spazio. Ma il posto era completamente deserto, a parte noi e il custode che peraltro era sparito dopo averci lasciato la chiave della nostra suite.
Beh, una doccia, ci si cambia e si va verso la stazione per andare a Kobenhavn. Era ora di pranzo, e continuavamo a non incontrare anima viva, anche se quello che avevamo intorno aveva tutti i requisiti di decoro urbano delle città nordeuropee. Palazzi, strade, alberi, pulizia. Tutti cartelloni del luogo, le indicazioni stradali e i cartelloni pubblicitari erano dediti alla celebrazione del Bycenter, peraltro attaccato alla stazione. Il Bycenter era elogiato anche dall'unico volantino che avevamo su Ishoj. Il centro commerciale. Wow. C'è vita anche qui, allora. Scarpinando un po', arriviamo dove ci si aspettava di trovare rinchiusa l'intera città, a quel punto. Il nulla. Nulla di nulla. Negozi aperti, senza nessun cliente dentro, ogni tanto senza personale. Boh. Spazi ampi, un bel centro commerciale al coperto, pulitino. Ma vuoto, cavolo. Completamente vuoto. Unica nota del posto, dei piedoni adesivi enormi attaccati a terra che dovevano guidarti verso chissà quale meta. Come numero di scarpe siamo dalle parti di King Kong. Colore verde acido indimenticabile, sul linoleum neutro. Contenti loro. Torniamo da Kobenhavn col treno delle ventuno. Ovviamente fra il complesso Bycenter-stazione e il nostro ostello non incontriamo anima viva nemmeno stavolta. Non eravamo neppure intimoriti dall'ambiente, constatavamo allegramente che forse in un posto così anche un serial killer non si fida poi troppo la sera... Riposammo non proprio tranquillissimi. La mattina dopo prima di andarcene si rese necessaria una mezz'ora di peregrinazioni nel centro sportivo per trovare qualcuno a cui saldare il conto e non fare la solita stereotipata figura da italiani. Peraltro, nemmeno registrati come visitors al momento dell'arrivo.
Boh. Chiederei alla coniuge se è interessata a ripassarci, una volta o l'altra.

venerdì 16 aprile 2010

Who needs enemies... /1

In adolescenza non è che fossi propriamente uno stinco di santo. Raccontandola a tinte tenui, se c'era da farsi qualche sana risata anche alle spalle di qualcuno, anche in modo tutt'altro che politically correct, non mi tiravo indietro praticamente mai. Potessi riavvolgere il nastro, non posso garantire nemmeno che mi comporterei in maniera diversa, intanto perchè nel tempo sono diventato fior di bravo ragazzo, poi perchè se c'è da ridere, scherzare, far casino in modo quasi professionale mi riesce davvero difficile astenermi.


Dopo la doverosa premessa... durante il periodo del liceo uno dei compagni, anzi proprio amici, con cui passavo più tempo era letteralmente un dono per uno come me, alla luce di quanto premesso. Bonario, pure troppo. Paziente, pure troppo. A volte ci stava a lasciarsi mettere in mezzo, a volte si metteva proprio in mezzo da solo, con una comicità involontaria che sfociava in episodi dove di solito, alla fine, era lui l'unico che non rideva...


Nella beata sfrontatezza adolescenziale, il modo che utilizzavo per rimetterlo in pista, diciamo così, era il proverbiale pizzone. Dicesi pizzone l'imprimatur di tutto il complesso "palmo della mano più cinque dita" sulla faccia altrui. Il primo di questi mi partì durante una partitella in un parco. Prendemmo un gol che onestamente non si poteva evitare, lui portiere io libero vecchio stampo... Mi guardò ridendo commentando "Beh, erano in tre, che potevamo fare, cantargli una messa?". Non so cosa mi sia accaduto, ma la mano destra agì decorrelata da quella cosa che all'epoca poteva definirsi un cervello solo per convenzioni anatomiche, e andò a depositarsi fragorosamente in faccia al malcapitato, che continuò a ridere! Vediamola col tono di "la sventurata rispose", che segnò il destino della Monaca di Monza.


Da quel momento, il simpatico rituale del parcheggio delle cinque dita in faccia divenne una sorta di campanello semantico, un cordiale warning per comunicare che in quel momento non mi trovavo d'accordo. A capirsi, non è che gli facessi male, ma garantisco che non si trattava di carezze (tanto il tutto è abbondantemente prescritto...).


Arriviamo all'anno della maturità. Consueta autogestione fra gennaio e febbraio. In una mattinata in cui l'unica nota degna furono i fischi ad Antonello Venditti che in sostanza era venuto da noi a farsi pubblicità, visto che la pioggia sconsigliava le solite ordalie calcistiche, si optava per la briscola. Due contro due. Lui in coppia con me. Mano decisiva e dovevamo rimontare. La briscola è bastoni. L'avversario di mano esce pesante, con un asso. Io avevo due possibilità, o dargli sopra altri punti o ucciderlo malamente col tre di briscola. Chiedo "Come stai messo?". Lui, sicumerico "C'ho tre carichi!". Io impreco silenziosamente perchè non si danno quelle info così. Ma tant'è, calo il tre. Il terzo ovviamente liscia. Lui no. Aveva tre carichi, non poteva lisciare. Aveva tre carichi. Mi uccide il tre di briscola con l'asso! Nella stessa frazione di secondo l'amico alla mia destra percepisce come uno spostamento d'aria, una specie di fischio, seguito da un rumore quasi ai limiti della barriera del suono. Quella volta le cinque dita restarono tatuate per un po'...
Adesso capisco che non tutti potranno essere d'accordo, ma se uno t'ammazza il tre di briscola con l'asso in una mano decisiva, ci sta che ti incazzi un attimo? :)

giovedì 15 aprile 2010

La speculazione edilizia



Sto rileggendo un libro di Italo Calvino scritto nel 1957 che conserva una attualità quasi contundente. Il titolo, "La speculazione edilizia".
Famigliola della borghesia intellettuale ligure negli anni che precedono il boom che senza averne i presupposti etici, per così dire, si cala nel business immobiliare e ne esce con le ossa rotte per manifesta inadeguatezza nella gestione dei problemi pratici e per l'inevitabile mix di avidità, meschinità e cattiverie interne che emergono quando il soldo è in discussione.

Il libro è interessante, sia per le tipizzazioni fatte sui personaggi che per la riflessione sull'evoluzione delle dinamiche economiche di un paese in un periodo difficile. Il rozzo e scaltro costruttore Caisotti, la segretaria disponibile, i due squinternati fratelli Anfossi, la madre, vecchia professoressa ancora con qualche ideale. Ma oltre alla dignità letteraria in quanto tale (si sta parlando di Calvino) colpisce la facilità con cui la storia narrata si mappa ad una distanza di cinquanta anni. Le figure dei borghesi bene del paese, il notaio, l'avvocato, l'ingegnere. L'avidità e la concretezza del costruttore, il borghese semplice che resta stritolato nell'idea del soldo facile dovuto al mattone. E' la vita di oggi. Si cementa ogni spazio che abbia un senso, a prescindere da vincoli ambientali, presenza di infrastrutture, ipotesi di una minima qualità di vita in quelle unità abitative. Un panorama umano di una desolante veridicità.
Fenomeno molto più italiano di tanti altri. Business facile: il rischio non è il tuo, è l'eredità di povera nonna, tu non hai messo nè sforzo intellettuale (non sia mai) nè sforzo imprenditoriale. Te lo sei ritrovato lì, bella mucca da mungere tutta e subito. Ha valore di mercato x? Beh, proviamo x+20%, perchè tanto quello che mi ricoprirà d'oro lo rivenderà con il suo extramargine che non mi interessa sapere. Oppure vendiamolo con un service di ristrutturazione incluso, che risistemi quanto sia cadente e antiestetico al prezzo che dico io (rigorosamente in nero) in modo da motivare un ulteriore aumento alla folla di potenziali acquirenti che si presenterà non appena il fatidico annuncio dell'attico terrazzatissimo finemente ristrutturato farà la sua apparizione sull'ennesima rivista.

Il tutto in un fiume di cemento, che ormai è l'inchiostro con cui i vincenti stanno scrivendo la storia.

Un grazie a Italo Calvino, per averci risparmiato il terrazzatissimo.

martedì 13 aprile 2010

Campione di camionismo!



Tempo fa stavo spulciando fra vecchie riviste di videogiochi, ormai praticamente materiale vintage. Ce n'era una che all'inizio degli anni ottanta era una sorta di piccola bibbia periodica per i videogiocatori delle prime console della seconda generazione (dove per prima generazione potremmo intendere il famoso tennis con le stecche bianche). La rivista era Videogiochi, edita dal Gruppo Editoriale Jackson. Carina, colorata, con recensioni dei giochini disponibili per Atari, Intellivision e Coleco, le tre console dell'epoca.

Fra le varie iniziative, ricordo con malcelato orgoglio l'epica Videogara, un contest fra lettori che potevano cimentarsi in qualsiasi gioco per cui avesse un senso la nozione di punteggio: in sostanza non valeva fare 99 gol contro il fratellino di due anni, ma fare tot punti disintegrando marzianini o formiche mutanti aveva un senso. Chi riusciva a restare tre mesi in classifica con il suo record vinceva addirittura un anno di abbonamento.

Io ero un mostro in due giochi: il mitico Pitfall Activision e un divertentissimo gioco della Imagic, chiamato Truckin' (e come suona bene tradurre con camionismo...). Per essere un giochino vincolato a funzionare sotto le minimali risorse dell'Intellivision era veramente outstanding. Già le confezioni della Imagic, tutte argentate, avevano il loro fascino. Questa poi aveva su la foto di un bestione, forse un Mack, tutto luci e cromature. Nella confezione, oltre alle mascherine per i comandi come quella in figura, era inclusa una spettacolare cartina degli USA con tutte le città e le interstatali che le collegavano.

Il gioco aveva l'obiettivo di guadagnare il più possibile in due mesi trasportando carichi in giro per gli States. I carichi erano remunerati in maniera differente: meno per la ghiaia, più per il bestiame. Ma il bestiame occupava tutto il vano di carico, la ghiaia e le altre cose (grano e latte) potevano essere variamente assortite. Poi subentrava la tattica: sono a Jacksonville: mi conviene portare due carichi medi a Miami dove poi devo imbarcare qualche bove proprio per Jacksonville, oppure metto subito il bestiame per San Antonio che è più lontana? Inoltre andavano calcolati i consumi, rispettate (ahem...) le velocità massime, osservate le ore di riposo.
Insomma, con quel gioco avevi gratis la preparazione dell'esame di Ricerca Operativa all'università e una buona infarinatura sugli algoritmi di routing (almeno sull'OSPF!). Oltre al punteggio la difficoltà maggiore era sicuramente quella di produrre una foto leggibile che poi, confidando nelle poste, sarebbe stata consegnata alla redazione. Anche qui VintageTech a pioggia! Il giornale consigliava l'uso di una Polaroid senza flash. E già in quel periodo le minilastre per la Polaroid erano merce rara e non a buon mercato. Ma in un momento di ispirazione divina riuscii a fotografare un eccellente 61840 al secondo tentativo, dopo aver verificato che in effetti c'era un motivo per cui il flash non andava usato. Poi subentrava la diffidenza verso le poste. Avrei fatto Roma-Milano anche in ginocchio sui ceci, pur di consegnare la prova della mia abilità di camionismo operativo! Ma andò bene. L'ultimo ostacolo era quello di resistere in vetta alla classifica del gioco per tre mesi. Il punteggio era buono e quindi vinsi l'agognato trofeo cartaceo! Rimasi in cima in classifica per un altro mese e poi qualcun altro fece meglio, ma ormai era andata.

Annetti dopo, un mio amico che era da me per vedere una partita, si imbattè in queste riviste e in effetti disse che o per la Polaroid refrattaria o per skill shortage proprio, si era cimentato ma non era riuscito. Giustamente orgoglioso, mostrai la prova contundente del mio record. Stava per chiedermi l'autografo!

Ho riso da solo, scrivendo questo post ;)


lunedì 12 aprile 2010

Sentire le voci


La professione del doppiatore mi intriga tantissimo, magari per manifesta invidia data dalla consapevolezza che un tono del tutto normale e un accento difficilmente eliminabile me la precluderebbero a priori.
Per curiosità innata e per quel minimo di imprinting familiare, spesso mi sono trovato affascinato da quel mondo. La traduzione deve sottostare a certi vincoli dati dal tempo scenico, dall'incastro col movimento dei labiali. Ma non è il tecnicismo ad interessarmi più di tanto, quanto la bravura dei doppiatori, artisti spesso misconosciuti se non brillanti per luce propria in altri settori.

Il panorama è interessantissimo e oltre ai casi arcinoti ci si imbatte in incastri curiosi quando non comici. Molto spesso alcuni personaggi sono appunto identificati dalla loro voce, tipicamente Oliver Hardy si mappa su Alberto Sordi. E Stan Laurel, per restare in tema? Nello stesso periodo era doppiato da un professore di fisica, Mauro Zambuto. Pensare a un laureato in fisica (figura non di secondo piano, peraltro) che indossa le cuffie a fianco di Alberto Sordi per regalare al pubblico italiano i dialoghi surreali di Stanlio e Ollio fa quasi tenerezza.

Altri casi simpatici da notare... Massimo Giuliani, caratterista di medio livello (mea culpa, non ricordo troppo al di fuori della macchietta di Francesco Totti), è stato la voce di John Belushi nei Blues Brothers. Bravo, punto e basta!
E tornando indietro nel tempo si scoprono cose non da poco... Don Camillo e Jerry Lewis avevano tutti e due la voce di Carlo Romano. Sergio Fiorentini, bravissimo attore teatrale e semper fidelis brigadiere Cacciapuoti nella serie tv del Maresciallo Rocca è la voce di una moltitudine di attori, tra cui il grande Gene Hackman. Pino Locchi sta a Sean Connery come Alberto Sordi a Oliver Hardy. L'Eddie Murphy originale non ha la risata contagiosa della sua voce italiana, Tonino Accolla.

E vogliamo parlare del Re? Ferruccio Amendola secondo me è stato il migliore di questa generazione, senza pensarci. "Tu non hai il contabile, non hai niente, sei solo chiacchiere e distintivo, solo chiacchiere e distintivo!" E' sufficiente. E' la garanzia che il film doppiato non perde una briciola rispetto all'originale. De Niro, Stallone, Dustin Hoffman, Al Pacino, fino al casareccio Tomas Milian. Inconfondibile, in ogni caso.

Capitolo a parte per i cartoni animati. Anche qui si fa spesso ricorso alla voce di prestigio: Gigi Proietti è il mago della Lampada in Aladdin, Luca Zingaretti è Marlin in Nemo. Tutto bene, finchè l'impero della mediocrità non deborda anche qui. Un bel film come Robots letteralmente rovinato perchè il protagonista deve essere doppiato dal vincitore del reality di turno. Nella stessa pagina in cui compaiono Sordi, Amendola, Fiorentini e Locchi non scrivo neppure il nome, sarebbe mischiare l'immiscibile.

Per chi volesse sbizzarrirsi in rete, il sito di Antonio Genna è una sorta di Google del settore. Kudos.

venerdì 9 aprile 2010

Texel Scramble

Le isole Frisone occidentali sono un minuscolo arcipelago incastrato fra Olanda, Danimarca e Germania. Principali centri abitati Texel e Terschelling. Allevamento, pesca e modica quantità di turismo: non molto altro da segnalare.


Il posto è carino. Ci capitai con il gruppo di amici dell'università durante uno spettacolare InterRail nel 1992. Arriviamo a Texel nel primo pomeriggio dell'ultimo weekend di luglio. In queste isole esiste la possibilità di mettere le tende su terreni demaniali attrezzati a campeggio, con prezzi veramente proletari, strutture igieniche minimali ma pulite, vacanzieri abbastanza pittoreschi ma con cui si convive senza problemi e si può anche fraternizzare se non si fanno troppi sofismi sulle forme. In sintesi, sembrava che ci fosse il mondiale di rutti a squadre. Però il clima era di una allegria contagiosa. Eppoi avevamo le tende, quindi come last resort poteva starci.


Il pullman che girava l'isolotto ci prese da quel campeggio e ci portò a downtown, un cumulo di vialetti con case basse, localini, tutto molto carino ed estivo. Fatte le dovute proporzioni, quasi mediterraneo.


In compagnia di A, forti del nostro più che forbito eloquio inglese, ci addentriamo alla ricerca del VVV, il tourist information locale, per avere indirizzi di pensioncine o consimili dove restare due o tre giorni. Le consegne per il resto del gruppo erano chiare. Forte del suo talento atletico, F doveva fare da staffetta fra noi e il capolinea del bus, gli altri avrebbero dovuto convincere l'autista ad aspettarci in caso di necessità o imprevisti.


Erano circa le 19 e il maledetto VVV era chiuso. Nel frattempo le viuzze di Texel Seaside cominciavano a popolarsi di turistame che a vario titolo affluiva in gelaterie, ristorantini, birrerie e negozi. La densità umana negli spazi stretti cominciava ad essere almeno rispettabile.


Sconfitti, A e io ci mettiamo per la via del ritorno verso il capolinea, quando arriva di corsa (veramente di corsa) F che ci dice che l'autista sta dando in escandescenze perchè deve ripartire ed è la corsa conclusiva della giornata! Porca miseria! F ovviamente si dilegua in un amen, mentre io inizio a correre, con A dietro di me. Puff! Gruppettino fermo in miezz'a via... sorry, sorry... si continua a correre... questi però sono troppi, scarto sul lato della strada, sempre con A dietro. Fiancheggio bar con giostrina e bimbo sopra, salto con insospettabile autorità la base della giostrina, con A dietro che approva a voce alta "Grandeee". Non doveva farlo. Comincio a crederci. Riguadagno il centro della Boulevard (facciamoli contenti). Due caratteristici spilungoni biondi con pacchetto di patatine che convergono lentamente l'uno verso l'altro e non mi vedono arrivare.


Il campione sa decidere in una frazione di secondo, in quella frazione di secondo in cui ti rivedi lo scramble leggendario di Steve Young contro i Vikings, 49 yds di gloria sfuggendo a ogni tipo di attentato. Posso farlo. Ci passo in mezzo. I due convergono, ancora. Mi abbasso per passarci e in effetti passo. Se non fosse che nello stesso istante A vede una specie di fungo atomico di patatine, con i due che cadono a terra. Stava per porgere le dovute scuse, ma in un lampo di saggezza che travalica l'età pensa "Stai a vedere che gli unici due di tutta l'isola che non parlano inglese so' questi due, pure grossi..." e quindi procede sulle mie orme.


Qualche altra decina di metri e mi ritrovo al centro del mirino una camerierina bionda con vassoio carico di birre che si ferma in mezzo alla strada, penserei terrorizzata. Ordine perentorio e provvidenziale di A "MAURO QUELLA NOOO!!!".


La evito di poco, e ormai con un piede nella fossa arriviamo al capolinea del bus, dove l'autista aveva già esaurito tutte le contumelie disponibili per le divinità locali e dove E, vero asso nella gestione dell'imprevisto, si era sdraiato a quattro di spade davanti al pullman!!!


Salimmo, diretti al campeggio. Io non ero proprio un fondista, quindi spesi il tempo del viaggio a riprendere fiato. A smise di ridere dopo 5 minuti. F non aveva visto nulla, che ci aveva staccato subito. In fondo in fondo quel campeggino non era poi male :)


Pensando a F, che ci ha lasciato troppo presto.

giovedì 8 aprile 2010

Urga territorio d'amore


Per ordine. Atteniamoci alla recensione del Dizionario dei Film Morandini.


Un camionista russo rimane in panne nella steppa e viene ospitato da un pastore mongolo. Per ricambiare la gentilezza, il camionista lo porta con sé in città per aiutarlo ad acquistare i preservativi che gli consentano di controllare nuove nascite in famiglia. Quell'irrequieto talentaccio russo di N. Michalkov torna al cinema 4 anni dopo Oci Ciornie con un film ottimo nella prima ora, dominata dai grandi spazi della steppa mongola, dalla descrizione degli usi e costumi di un piccolo nucleo di vita pastorale, dalla contrapposizione tra la ridondante vitalità slava del russo e la quieta, impenetrabile gentilezza orientale dei suoi ospiti. Poi, con il viaggio nella città vicina, il film s'ingorga, perde ritmo, diventa pedagogico, demagogico e moralistico. Accattivante colonna musicale di Eduard Artemiev. Leone d'oro al Festival di Venezia.



Una sera di un congruo numero di annetti fa, una carissima amica mi propone la visione del suddetto Leone d'Oro in un cineclub. Bueno. Amo il cinema, so why not? Già il fatto che l'ultimo spettacolo iniziasse alle nove di sera doveva significare qualcosa. Saletta praticamente deserta. Magari è roba da palati fini. Ma quello che ricordo, in effetti, è un po' laterale rispetto a quanto si legge nell'illuminata recensione di cui sopra. Parlato in russo, sottotitoli in inglese. Nessun problema. Quando il Morandini accenna al fatto che il film "perda ritmo", il ricordo che emerge prepotente è che durante l'epico viaggio alla caccia del profilattico, c'è un punto in cui, vuoi le ore di guida, vuoi i trecento chilometri di rettilineo su sterrato, il camionista russo e il pastore mongolo si abbioccano pacificamente sul camion in movimento, e alla prima tenue piega finiscono ingloriosamente in uno stagno. Ora, se si addormentano gli attori, figurarsi in sala. Il pastore mongolo in tutto il film avrà avuto circa sei battute, inclusi anche un paio di rutti. Il plot origina dal fatto che il pastore e la moglie (che comunque faceva simpatia infagottata nel suo vestitone) hanno già raggiunto la quota di figli prevista, quindi o si previene o ci si astiene. Ma quello che il Morandini non dice è che all'arrivo nella città (ricco eufemismo) il nostro eroe va in farmacia, è colto da adolescenziale pudore e non trova il coraggio per chiedere i provvidenziali gommini al farmacista. Va al luna park, spende. Torna a casa e dice alla consorte di essere stato derubato. Fine. M'è scappata la sfumatura demagogica. Centodiciotto minuti. Consiglio il noleggio ;)

mercoledì 7 aprile 2010

La canzone di Brian

Dal punto di vista personale sento di dovere qualcosa alla storia di Brian Piccolo. Come molti, incappai abbastanza per caso nel bellissimo film La canzone di Brian, interpretato da James Caan. Commovente, perchè lo era la storia originale. Forse quello è stato il quid che mi ha fatto girare la testa da quella parte, il momento in cui ho iniziato a considerare quello sport, quel modo di pensare, quella dedizione verso una causa per cui vale la pena spendersi o provarci. Ho anche pagato il mio prezzo, ma se potessi ricomincerei subito. 


La storia di "Pic" è bellissima, intensa e tragica. Brian Piccolo (1943-1970) era un halfback di buon valore durante il periodo universitario. La sua fibra di uomo si rivelò molto presto. In un periodo in cui negli States l'integrazione razziale era tutto tranne che un processo compiuto, durante una partita di campionato contro Maryland, in una cornice di pubblico difficile, attraversò ostentatamente il terreno di gioco e andò nella panchina avversaria per abbracciare un ragazzo, Daryl Hill, che in quel periodo era l'unico giocatore di colore in quella divisione. 
E zittì il pubblico. 


Nei professionisti non era una stella ma un onesto giocatore di squadra, riserva di una vera e propria superstar, Gale Sayers. E per la prima volta, nei ritiri e nelle trasferte, i Bears misero nella stessa stanza un bianco (Piccolo) e un nero (Sayers). Alla domanducola del solito giornalista sul "cosa si prova ad avere in stanza un nero", Piccolo rispose con un lampo di genio "Va tutto bene fino a che non usa il bagno!".


Nel 1969 Piccolo venne spostato al ruolo di fullback, quindi l'empatia fra lui e Sayers, che si avvaleva del suo lavoro sui blocchi, crebbe sempre di più. Durante la stagione del 1968, Sayers fu vittima di uno di quegli infortuni che di solito stroncano in un attimo la carriera di un corridore, di un elusive back come lui. Causa un placcaggio di Kermit Alexander dei San Francisco 49ers, il suo ginocchio destro fu distrutto. 
Per un corridore i legamenti del ginocchio sono la discriminante fra esserci e non esserci. 
Il verdetto iniziale fu chiarissimo: career ending injury. Ma da quel momento in poi Brian Piccolo si caricò sulle spalle il suo compagno, lo aiutò sia nella riabilitazione che, cosa più importante, nella motivazione: volerci credere ancora e non avere paura. 


Contro ogni logica, dopo un anno Gale Sayers era di nuovo in campo, e Piccolo aveva restituito al football uno dei talenti più grandi della sua epoca. Ma nello stesso 1969, durante la partita contro gli Atlanta Falcons, Piccolo chiese di uscire perchè aveva evidenti difficoltà respiratorie. Appena i medici cercarono di vederci chiaro, il verdetto fu "embrional cell carcinoma". 


Interventi, un polmone asportato, dolori non raccontabili. E a 26 anni le metastasi hanno fretta. Reni, fegato, ovunque. Brian Piccolo muore il 16 giugno del 1970, con Gale Sayers a tenergli la mano insieme ai suoi familiari. Il più grande riconoscimento per un giocatore di football a livello individuale è il ritiro della maglia. E' il segno che per quella squadra il pezzetto di storia che hai scritto resterà lì per sempre. Nessun giocatore dei Chicago Bears indosserà più il numero 41.



martedì 6 aprile 2010

The Italian Way

Quanto può essere difficile capire che per far progredire una società bisogna lavorare sui diritti delle fasce più deboli e non sui privilegi di un numero risibile di individui...

venerdì 2 aprile 2010

Ponza!

Parafrasando la passeggiata in Vespa di Nanni Moretti per le stradine della Garbatella, se c'è una cosa che mi piace fare è passare una giornata a Ponza... Le isole Pontine sono uno dei gioielli nascosti (nemmeno troppo) del Mediterraneo. Con un po' di buona volontà da Roma può anche essere un'ottima meta per un mordi e fuggi di una sola giornata che alla fine ti lascia esausto ma felice. Negli ultimi anni la giornata a Ponza è diventata una adorabile consuetudine. Partenza da Roma ancora con il buio della notte, quasi apposta, per girare piano per la città completamente deserta. Rotta a sud passando per la Pontina, strada che conosco buca per buca (apposta le prendo tutte...), si passa a Latina a svegliare l'ammiraglio e la coniuge, magari con qualche genere di conforto per la colazione, come buona educazione consiglia. Chiacchiere davanti a un tè con i biscotti, rapido check anche se tanto qualcosa si dimentica sempre. Rotta per San Felice, passando per il porto diretti verso l'aliscafo per Ponza. Con la voglia recondita di essere un ufficiale della Finanza, visto il bendiddio attraccato nei paraggi... Alle 8.30 del mattino inesorabilmente il veloce mette la prua verso le isolette, quindi la puntualità è un must. Biglietti pronti, sacca con pinne e maschera già pluricontrollata. Dopo un'oretta e poco si approda al porticciolo di Ponza, dove l'ammiraglio ha già prenotato diligentemente un gozzetto motorizzato dotato di tendina parasole che può ospitare fino a cinque persone. Va dato atto all'ammiraglio che nel tempo ha decisamente affinato le sue tecniche di guida e che ormai la patente nautica è quasi un pro forma. Come gli facciamo notare con la coniuge, deve migliorare sulla canzone napoletana e poi è perfetto! Ma una volta archiviate le sfumature goliardiche e lasciato il porticciolo alle nostre spalle, il panorama che ci si apre davanti lascia senza parole. Montagne che richiamano enormi torte di crema e panna, un mare a toni di verde e blu quasi violenti nella loro intensità, la sensazione ubriacante di libertà, di non essere vincolati alle spiaggette raggiungibili a piedi, comunque bellissime, dove si starebbe un po' troppo zippati. Anche se ci siamo stati più di una volta, non ci si può annoiare in un posto così. Si trova un posto dove stare ancorati per un po', si indossano pinne e maschera e si entra. Un mare così può essere freddo, bollente, mosso, piatto... poco importa. Appena ci si cala in quel tipo di natura non si fanno troppi sofismi sul resto. Più di una volta mi sono messo ad inseguire meduse iridescenti dai colori irreali, mi sono calato in mezzo a banchi di pesci che neppure mi calcolavano, mi sono immerso a vedere rocce, conchiglie, relitti, tutto quello che puoi fare in sette ore di spasso totale, entrando in grotte con giochi di luce indescrivibili, con la sensazione bellissima di volersi trovare proprio lì in quei momenti. Si rientra a malincuore entro le 17 che l'aliscafo è decisamente svizzero, facendo una gradevolissima oretta di salotto, almeno nei limiti in cui te lo permette la stanchezza, con il sole che ti ha cotto oltre ogni più rosolata aspettativa...
Il rientro in macchina, con un venticello serale ristoratore che entra dai finestrini, migliore di qualsiasi climatizzazione artificiale. Poi si è stanchi davvero.

Con un grazie all'ammiraglio e alla coniuge (che ha anche fatto la foto), senza i quali questo post non sarebbe stato scritto

giovedì 1 aprile 2010

Kursk

I film con i sottomarini mi hanno sempre attratto. Un mix di mistica del lavoro di squadra, retorica patriottarda (non importa quale patria), trionfo del bene o del male minore unito a bravi attori ed effetti speciali degni. Rivedo volentieri film quali Crimson Tide e K-19, dove le storie mostrano anche dialettiche interne interessanti, un po' meno Caccia a Ottobre Rosso, che è più improbabile come trama. Ma la vicenda del Kursk non è la stessa cosa. Nessun lieto fine dovuto alle esigenze cinematografiche. La tragedia umana maturata in quella vicenda mi ha ispirato solo rispetto, riflessioni e voglia di approfondire cosa era successo e come e perchè fosse stata possibile una gestione dei fatti simile. La storia è abbastanza nota. Putin insediato da poco non vede l'ora di far capire al mondo quanto gli piaccia mostrare i muscoli. Esercitazioni nel mare del Nord, il giorno 12 agosto 2000 il Kursk non arriva al punto di riunione previsto dopo aver lanciato un SOS. Ipotesi confuse, presunte collisioni con un sommergibile fantasma, che avrebbe fatto tanto comodo, due esplosioni peraltro chiaramente avvertite da sismografi a pochi secondi l'una dall'altra. Centodiciotto vite perse, forse con una atroce agonia fatta di buio, di spazi stretti, di aria che andava diventando sempre più velenosa. Di acqua che cominciava ad entrare. L'ostentato rifiuto dei soccorsi non russi. Dal 15 agosto solo silenzio. I parenti delle vittime non possono accontentarsi del silenzio, anche se poi s'è trattato solo di una fatalità. Chi ha lasciato lì un figlio orgoglioso di stare in quel natante, un marito prossimo al congedo che avrebbe continuato a lavorare comprandosi un taxi tutto per lui. Storie spezzate che non sono capace di approfondire. Ma mi sento di evidenziare, ancora una volta, lo schifo che provo quando il potere dà certe prove di sè. Davanti alle famiglie che erano ancora in una atroce incertezza sull'accaduto, gli ufficiali della Marina e Ilya Klebanov (il plenipotenziario, Putin era in vacanza) recitavano il solito rosario stantio "Non abbiamo altro da dire. Ci stiamo lavorando". Rimane impressa l'esplosione di una madre, Nadezhda Tylik, che parlando letteralmente con il suo sangue inchiodava quei visi di marmo anonimi alla loro sciatteria di ufficiali e di uomini, alle loro responsabilità davanti a chi era chiuso in quello scafo che fino al giorno prima era l'orgoglio della nazione e adesso semplicemente un imbarazzo da mettere a tacere. "Dovreste strapparvi i gradi dall'uniforme davanti a noi". Ma il potere non prevede variazioni sul clichet. Un provvidenziale angelo biondo viene inviato ad iniettare un sedativo a chi si è permessa di essere se stessa in un luogo e in un momento in cui non era previsto. Poi ancora giorni di silenzio, con il potere ufficiale che ha ammesso la perdita dell'equipaggio con un ritardo a metà fra il beffardo e l'oltraggioso. Il recupero del relitto, quasi epico, eseguito da chi ragiona con numeri e coraggio, non con la retorica del potere. E il silenzio di chi rimane, di chi ogni tanto va a portare un fiore davanti a una foto, senza alcuna speranza che lo stato a cui il loro caro ha dato la vita si ricordi di loro.