martedì 22 febbraio 2011

"Noio..."

Più passa il tempo più temo di avere da qualche parte una specie di GPS da passeggio che io non sono in grado di vedere ma tutti gli altri sì.

Premetto: vivo lo stesso, per carità. Nessuno mi ha mai aggredito (per ora), solo che non riesco a capire il motivo della frequenza con cui mi vengono richieste informazioni stradali a prescindere. In qualsiasi configurazione: capisco se sto in giro con moglie e bimbi, ma se capita di uscire con un amico generico, perchè solo a me?

Ho una collezione di casi "strani" non da poco. 

Mi spiego: se tu sei in un posto che non conosci bene, sei quasi arrivato e ti mancano un paio di traverse di una zona che non pratichi, chiedere è perfettamente normale. Ma che con la massima disinvoltura, mentre sono a passeggio con famiglia, un'auto si accosta e esordendo con l'immancabile "scusi, sa dove devo andare per..." e mi chiedono una cosa a una decina di chilometri da lì e la risposta non è "sempre dritto", resto perplesso.
Intendiamoci, su questo non mi ascrivo nessun tipo di normalità, quindi se mi chiedono destinazioni note mi armo di buona pazienza e comincio pistolotti biblici indicando semafori, direzioni vietate, attrazioni turistiche, occhio che lì c'esce un deficiente contromano e alla seconda a destra ci sei.

Ma un giorno, tirandomi due statistiche, ho visto che mi hanno chiesto informazioni stradali a Roma (e vabbè), a Milano, a Arhus e a Copenaghen, a Stoccolma, a Berlino dove ero affiancato da un residente madrelingua e da una insegnante di tedesco che si sono rifiutati di rispondere chissà perchè. A Dallas, dove andando in giro con la maglia di Tony Romo ci stava pure, al limite, che mi scambiassero per un locale. 

Insomma ho deciso che, come si dice, enough is enough. Quindi se mi chiedono una cosa plausibile mi va bene, se mi chiedono polo sud da polo nord comincio a inventare malamente, fornendo spiegazje perentorie e sicumeriche, in modo tale che gli improvvidi restino del tutto affabulati dal racconto e si sentano in condizione di ringraziare urbanamente questo fior di ufficio informazioni viaggiante.
Non per sadismo personale, per carità, è semplicemente che non ho moltissimo da fare e che ogni tanto certe richieste le vedo un po' pretenziose e perdo i freni inibitori (che necessiterebbero comunque almeno un check alle pasticche, onestamente).
E poi perchè ogni tanto un filo di sano cinismo alio deretano può pure starci, perchè ammesso e non concesso che uno non possa permettersi tecnofrocerie evolute, uno stradario di carta non si nega a nessuno, su!

Nota a margine, quando mi chiesero info a Dallas feci un figurone. Tanto lì ti chiedono solo cose fra Elm Street e il Dealey Plaza, per ovvi motivi.

mercoledì 16 febbraio 2011

Mercato turco danese

Photo courtesy of Anna: www.galapril.com: Thank you!
No, nessun impeto futurista, quello era pallone turco frenato, amenità avanguardista forse marinettiana rappresentata da parole disposte circolarmente. 

E' uno dei posti che nel passaggino invernale danese mi ha colpito di più. Dava l'idea di essere espiantato da un panorama caldo e messo lì, al chiuso, microcosmo artificiale di un mondo che fuori continuava ad esser freddo e ammantato di neve. E' un comprensorio nemmeno grandissimo intorno alla periferia di Arhus. Me lo ricordo composto da un paio di complessi. Uno più stretto con negozi di abbigliamento tipicamente turco, almeno pensando per stereotipi, anche robusti. Vestiti da uomo color turchese laminato, abiti da donna color fucsia, con tanto di boa di struzzo in tinta, smoking per bambini. Scarpe di ogni foggia, tutto di un kitsch talmente irritante da sconfiggerti con l'eccesso e risultare anche gradevole. E poi cerchioni cromati per auto, coprisedili leopardati. Avessi trovato un pomello del cambio a forma di teschio entravo e compravo, giuro. 

Ma quello che mi ha fatto sorridere era il mercato alimentare. Tutto così mediterraneo. Montagne di frutti coloratissimi in bell'ordine, macellerie, bar, ristorantini Kebab (anche buoni). Phone center a pioggia, un paio di fumerie, odori di ogni nuance la cui somma non era nemmeno sgradevole, negozietti di chincaglierie rumorose e colorate. E una discontinuità clamorosa con l'esterno, quando metti il piede fuori dalla hall e calpesti quel po' di neve che continua a scrocchiare sotto il tuo peso.

E ci si spende bene. Mi dice L che il rapporto qualità prezzo è molto competitivo, tanto che per frutta, pesce e tanti altri generi alimentari sono decisamente concorrenziali. E professionali. Ma per una volta non mi calo troppo nelle analisi di business. Mi perdo in quel mix poco probabile, in spazi che non sono angusti ma che sono comunque sovraccarichi di tutto. Di oggetti, di colori, di suoni, di profumi.

E il furgoncino del pesce fresco all'uscita, che fa quasi da ponte tra due modi differenti di intendere il commercio. Pesce buonissimo, fresco. Costa tot? Dai, siete simpatici, ve lo lascio a meno!

Non avevo la macchina fotografica con me, e ho trovato una foto molto carina su Galapril, un blog di una ragazza danese che mi ha permesso di utilizzarla :)
Anna, thank you for your colourful pic :)


martedì 15 febbraio 2011

Voci di quartiere

Vivendo connesso, nel tempo la mia socialità s'è sbilanciata verso la rete. Parlo con amici e amiche sparsi per il globo con buona facilità, filtrando a prescindere persone e argomenti sulla base di interessi e vissuti personali. Insomma, riesco ad essere selettivo e quello che non voglio vedere/notare è cassato a monte. Wow. 
Di solito comportamenti così tranchant non sono sempre i più saggi. In parole semplici... Ogni tanto un sano contatto col quotidiano può regalarmi qualche siparietto che merita. Come i due riportati di seguito, che per una strana congiuntura astrale si sono materializzati nell'arco di una quarantina di minuti e nel raggio di un chilometro. Nel mio quartiere, nemmeno un postaccio.

Ladies. Esco dalla farmacia carico di antiinfluenzali per tutte le fasce d'età. Sul muro esterno fa bella mostra di sè un nuovissimo distributore di profilattici appena installato, tutto luci e colori, e un paio di robuste barre metalliche con lucchettoni sul frontale a spoetizzare. Una signora un po' avanti con gli anni sta lì di fronte e tenendosi gli occhialini con la mano non ci si raccapezza molto. Signora ben vestita, cappotto e borsa sotto il braccio, che resta là di punta, di fronte al distributore. Boh. Esce altra signora di pari età che netta netta si rivolge all'amica "Aoh, ma che te stai a guardà er distributore dei preservativi?". La prima signora si ritrae quasi impaurita con il più telefonato dei "Ma noooo! Ma guarda te...." l'amica la incalza con "Adesso non me dì che non sapevi che era quello!". Il tutto sta rapidamente scemando in una risata finale quando passa alle loro spalle una terza signora della stessa fascia di età, vestita anche lei molto a modo, che prorompe in un liberatorio "Ma fa bene!!! Ma non ho capito perchè quello là che è pure più vecchio de noi si trastulla(*) co le ragazzine e noi non potemo manco fa' un peccatuccio!!!". Ero tentato di invitarle tutte e tre per un aperitivo al wine bar là dietro...

(*) ecco, non ha detto proprio così.

Prosopopea tagliata sottile vicino all'osso. Ancora di buon umore per la performance estemporanea delle tre signore, mi dirigo a far provviste in macelleria. Quella buona, dove c'è la fila. E dove in fila mi capita vicino la definizione da manuale di pirla. Uso il dialetto insubre di proposito, a dispetto della location, perchè lo stereotipo incarnato dal tizio era veramente perfetto, roba da andare su google, scrivere "pirla", premere su "mi sento fortunato" e si ottiene la faccia di quello. Vestito: quasi un trendsetter. Zuccotto blu stile Lucio Dalla. Giacca blu, pantaloni blu, camicia e cravatta adeguate, scarpe marroni. Ti passo lo zuccotto di lana per il freddo ma non il vestito blu e le scarpe marroni. Nemmeno in fila in macelleria. E maledizione, c'è fila. Incurante della presenza di sette otto persone affaccendate in questioni da macelleria, il tizio prorompe ad alta voce in una sfilata di cazzi suoi non da poco, intercalando il tutto con un "ha-ha!" talmente fastidioso che ci accoderei una h aggiuntiva. "Hah-hah, amico caro, allora per la prossima settimana si parte!" Amico caro a chi? Dubito che questo abbia amici, con quel profluvio di h. "Si, si atterra a Gnu Iorche nel pomeriggio, alberghetto e compagnia giusta, caro amico..." e intigne. "No, guarda, la compagnia giusta è quella che dico io, hah-hah che l'altra volta c'è mancato cazzi che ci portavano in ceppi a Guantanamo a tutti". Avesse voluto Dio. E su questa nota gentile arrivo finalmente a chiedere le mie fettine. "No, non ti sento, no, PARLA PIU' FORTE". Quel sottile momento in cui la parte di Hannibal Lecter che alberga in ciascuno di noi sta per prendere il sopravvento, infilare l'inane di testa nel banco del macellaio, scontornargli fegato e interiora e metterlo in bella mostra vicino alle stesse parti di innocui bovini, che almeno non telefonavano urlacchiando (anche perchè non ce la vedo una mucca in fila in macelleria, onestamente). 
"Anche sei uova, grazie. Quanto devo? Grazie, buonasera".

Dovrei uscire là intorno più spesso.

venerdì 11 febbraio 2011

Say Cheese!

Per motivi di età non ho visto i Packers di Lombardi se non nei gloriosi filmati commentati da John Facenda. L'armata del generale Patton. Bart Starr, Paul Hornung, Forrest Gregg, Ray Nitzsche. Nomi leggendari, musi duri e nasi pisti. Freddo che ti si ghiaccia il video anche a vederli oggi. 

E Lombardi, appunto. Il grande vecchio, l'uomo per cui ogni giocatore era disposto a uccidere e morire. L'uomo che definì un sistema di valori e un'etica di lavoro nel football. Il trofeo che va nelle mani dei vincitori del Superbowl è il "Vince Lombardi Trophy", credo non serva altro.

Ma mi hanno sempre fatto simpatia. Un po' per le divise sempre uguali a quei Packers. Un po' per i gagliardetti appesi nel locale di Al nel telefilm Happy Days. Per i tifosi pazzi scatenati, allo stadio a torso nudo con la bufera di neve e il formaggione in testa. E poi una squadra gestita in regime di azionariato diffuso che riesce a vincere nel mondo dei pro fa sempre bene alle utopie personali. 

E ho sempre visto generazioni di Packers che ce la mettevano tutta, solo per il fatto di essere i Packers. Nei primi anni Ottanta facevano un gioco offensivo bellissimo, secondo solo ai Chargers. Lynn Dickey, signor quarterback ma misconosciuto. Un gruppo di ricevitori da sogno, capeggiati da James Lofton (John Jefferson e Paul Coffman completavano un trio da 1000 yds a stagione). Poche corse e niente difesa li condannavano all'inevitabile uscita prematura contro squadre più quadrate.

A fine anni Ottanta riprendono un po' quota, guidati da un QB sconosciuto, Don Majkovski, che aiutato dal talento cristallino di Sterling Sharpe e da qualche segno di vita in difesa, portò la squadra di nuovo verso record positivi, dando un po' una sterzata ad un ambiente che si era assopito.

Il resto è storia recente. Una trade con i Falcons nel 1992 porta a Green Bay Brett Favre, il quarterback più prolifico e longevo di sempre (non il migliore, secondo me). E nel 1993, l'immenso e compianto Reggie White in crisi personale lasciò i Philadelphia Eagles e disse di voler andare "just where God wants me to". Mike Holmgren, allenatore dei Packers, prese il telefono e gli disse "Reggie, this is God. Go to Green Bay!". Un Superbowl vinto, quello dopo perso in finale. Ma come ogni mostro sacro, Favre nel tempo cominciò ad essere una presenza ingombrante. Non aveva dichiaratamente un approccio "me first", ma spesso faceva sentire la sua voce prima del coach, e non è mai un bene in una squadra di football. Ma la dirigenza dei Packers è riuscita in maniera sontuosa a gestire il problema della successione (tanto per infliggermi dolore, i Dolphins stanno ancora cercando di rimpiazzare Dan Marino ormai da dieci anni). 

Nel 2005 scelgono al primo giro (24) Aaron Rodgers da University of Southern California. Gli danno tempo per maturare con un mentor indiscutibilmente forte. E nel 2008 scelgono. Ritirato o no, Favre non fa più parte dei loro piani e si va con Rodgers. Uno svecchiamento molto graduale è stato eseguito anche negli altri reparti, alcune scelte eccezionali (Hawk e Matthews), qualche trade solida (Woodson).

Una squadra costruita bene. Quest'anno sono riusciti a superare un robusto numero di infortuni (Jermichael Finley e Ryan Grant su tutti). Arrivano ai playoffs all'ultimo secondo, vincono tre trasferte. A Philadelphia, per rovinare la stagione a Michael Vick. Esplodono ad Atlanta, dove con facilità irrisoria massacrano i Falcons, top seed della NFC. Ormai non sono più un mistero per nessuno e vanno a vincere bene anche a Chicago, squadra con una buona difesa ma con una identità offensiva un po' insipida. Rodgers non sbaglia nulla. Non è un caso se come rating point in carriera è davanti a tutti. A Montana, Young, Brady, Manning. 

Fino ad arrivare al gran ballo finale contro gli Steelers, forti, esperti e abituati a vincere. Ma anche qui lo spirit dei Packers non viene meno. Rodgers gioca l'ennesima partita perfetta consecutiva. La difesa fa la differenza nel clutch time, conquistando palloni nei momenti nevralgici. E gloria sia, meritatamente. Il Lombardi Trophy ritorna "where it belongs", in quella città di circa centomila anime, dove il football vero si gioca sempre sotto la neve, dove c'è quel cartello stradale "Titletown", dove ci sono quei matti a torso nudo sotto la neve con le forme di formaggio in testa.

Complimenti davvero :)

venerdì 4 febbraio 2011

Bhopal

Dicembre in India è un mese bellissimo.

Così inizia un grande monologo di Marco Paolini all'inizio di una puntata di Report di qualche anno fa.

La storia di Bhopal è uno di quei fastidiosissimi incidenti di percorso che gli integralisti delle tecnologie per tutto e su tutto hanno sempre cercato di spazzare via sotto il tappeto, in nome di altri successi innegabili. Ma per chi si pone semplicemente dalla parte delle persone, è uno di quegli episodi che non possono essere dimenticati, rimossi. Fu una evidente prova di quello che può succedere quando la tracotanza e la stupidità del dio profitto non sentono scuse.


Breviter: la Union Carbide è un colosso americano della chimica. Tra i vari settori di una industria di quelle dimensioni c'era anche quello che faceva esperimenti su transgenici, agricoltura industriale, insomma tutti quei filoni che oggi vengono riportati al controverso mondo dell'OGM. Alcuni chimici in organico alla UC sperimentarono e perfezionarono un antiparassitario a basso costo e ad alto rendimento, il Sevin. Uno degli stadi intermedi della lavorazione forniva come semilavorato un gas molto instabile, l'isocianato di metile (MIC), che non resta tranquillo in caso di scambi con l'esterno (sia aria che acqua). In termodinamica,  la situazione stabile per quel tipo di gas è quella del sistema chiuso. Nessuno scambio con l'esterno. Nella vita reale questa situazione si può ottenere nell'industria con impianti costruiti e manutenuti con la dovuta cura. La scelta dei materiali deve essere ottimale, le procedure di manutenzione devono essere onorate nei loro tempi e rispettate nei loro contenuti. Questi gas sono veleni. E come racconta Paolini, le evidenze raccolte dagli esperimenti furono così traumatiche che si decise di non scrivere neppure una riga sulla letteratura scientifica ufficiale.

E' prassi consolidata che le aziende di dimensioni rilevanti decidano spesso di delocalizzare alcune produzioni per i motivi più vari. Agevolazioni fiscali, costo del lavoro, cose che saranno pure utili come prodotto finito, ma è meglio che i semilavorati e l'intermedio stiano lontano dai "nostri" figli. Ma a meno di cambiare pianeta, di solito un insediamento industriale per una lunga serie di motivi sta sempre vicino ai figli di qualcuno.

L'impianto per la produzione di Sevin aperto all'inizio degli anni Ottanta a Bhopal, in India, dopo un inizio promettente non venne più ritenuto redditizio. Non interessano qui i motivi, magari il prodotto era stato reso obsoleto da altro. Ma la dismissione di un impianto di questo tipo va eseguita bene. Con rispetto per la sicurezza e per gli impatti sull'ambiente e sulle persone. I semilavorati venivano ancora mantenuti in serbatoi dedicati, ma la manutenzione del valvolame, delle tubature, delle fiamme pilota non era più seguita da personale formato e specializzato (tutti licenziati), ma da generici operai reclutati a gettone che si trovavano a dover eseguire pedestremente un tot di righe scritte su un foglio. Nessuno fra loro aveva conoscenza per capire "se il passo 2 non va così come sta scritto, posso proseguire o devo chiamare qualcuno? e chi? è urgente o no? ".

Come accennato, uno dei preparati intermedi è il MIC. Gas che non deve interagire con nulla, non deve fare nulla se non essere immesso nella fase seguente della lavorazione con i reagenti opportuni. La Union Carbide non ritiene di fornire alle autorità locali e alla popolazione alcun tipo di informazione sui rischi connessi alla presenza dell'impianto. Si ritiene semplicemente un polo di progresso e di reddito per quella zona. Occupazione, denaro, indotto, crescita. Ha le sue procedure di sicurezza e ciò basti. Il MIC viene stoccato in tre serbatoi. Ma alla chiusura dell'impianto la manutenzione viene fatta alla meno peggio, il minimo indispensabile per la conformità alle procedure interne. 

Per il perdurare della scarsa qualità della manutenzione dell'impianto e per il conseguente degrado dell'infrastruttura, il 2 dicembre 1984 infiltrazioni d'acqua provocano una sovrapressione in un serbatoio interrato contenente 42 tonnellate di MIC. Il gas reagisce surriscaldandosi, esplodendo senza distruggere il cappotto di cemento ma cercando una via di fuga verso l'alto, dove in condizioni normali c'è una fiamma di sicurezza che neutralizza gli effetti di fuoriuscite e fughe varie. Ma anche tenere una fiamma accesa ha un costo. E un tempo di riattivazione che in una emergenza è un lusso insostenibile. Un geyser incontrollato fuoriesce dall'impianto. Il vento è quel che è, non è selettivo. Porta la nuvola verso una stazione e una zona densamente popolata. MIC, cianuro, fosgene compongono una mistura che uccide infliggendo sofferenze atroci ai polmoni e al sistema nervoso. La Union Carbide oppose il segreto industriale alle richieste disperate dei soccorritori che si ritrovarono fattualmente nelle condizioni di non poter fare null'altro se non veder morire le persone.

Uno sterminio. Non si possono censire le vittime di un paese che non ha anagrafe. Chi interra, chi brucia. Solo le foto, per i riconoscimenti.



Warren Anderson, CEO di UC all'epoca, se la cavò con una cauzione di duecentocinquanta  dollari. Poi si eclissò con calma, mantenendo ruolo e stipendio. I risarcimenti vennero sbranati in varie sedi, e quando in sostanza le assicurazioni si accollarono il 75% degli oneri, le azioni UC in borsa ne risentirono positivamente.

Nessuna bonifica è mai stata eseguita a Bhopal. La fabbrica è ancora lì. Si ipotizzano circa quindicimila vittime. Non risulta che nessun familiare sia stato indennizzato.

Qualche informazione aggiuntiva:
The Encyclopedia of Earth: Bhopal, India
Il monologo di Marco Paolini

Meglio non dimenticare.

giovedì 3 febbraio 2011

SuperBowl Memories (le mie...)

Come ogni anno ci siamo.
Una delle poche tradizioni di un paese che non ne ha troppe altre sta per officiare il proprio rito annuale. Il grande evento coi numeri romani sta per essere servito al miliardo e mezzo di spettatori che domenica prossima calibreranno la propria giornata sulle sei pomeridiane della costa orientale. Pittsburgh Steelers contro Green Bay Packers. Non sono coinvolto come tifoso, mi auguro solo di vedere una bella partita combattuta. E se possibile senza infortuni per nessuno.

Domenica sarà il mio ventisettesimo SuperBowl in diretta (o quasi) consecutivo. Il primo, che non si scorda mai. I Redskins che sconfissero i Dolphins 27-17 al RoseBowl di Pasadena. John Riggins che si trascina dietro Don McNeal nell'azione che finì nella cover di Sports (Power And Glory). 

Il primo (e unico) SuperBowl da tifoso: il XIX, allo Stanford Stadium di Palo Alto. Un inizio promettente, ma poi i Fortyniners, troppo più forti, ci schiantarono 38-16. E il grande Marino, solo 23 anni all'epoca, non avrebbe più avuto una seconda chance. Sport crudele.

I ricordi sono tanti, ormai. Alcuni anche legati a momenti tragici della vita personale, ma altri che nel tempo si sono accumulati, hanno costruito una specie di epos tutta particolare, limitata allo sport che adoro sopra ogni altro con pregi e difetti.

Il SuperBowl nella mia testa è una serie infinita di istantanee. 
Il "tutto troppo scontato" di Brady e dei Patriots degli ultimi anni, che mi lasciavano lì a rodermi le mani di invidia sportiva, ma tanto di cappello. La storia impossibile di Kurt Warner, da fattorino al supermarket al tetto del mondo in un anno e mezzo, e le lacrime dell'immenso Dick Vermeil dopo la partita. I Cowboys di Jimmy Johnson negli anni 90, una macchina perfetta in attacco e in difesa, mai in difficoltà. I trionfi di Joe Montana, sia quelli facili che quelli strappacuore. La strategia impeccabile di Joe Gibbs e dei suoi Redskins. Bill Parcells e i Giants, capaci di vincere sia dominando che per un errore altrui all'ultimo secondo in una delle più belle partite mai viste. John Elway, che a 37 anni e con una immeritata nomea di perdente arriva a chiudere la carriera con due trionfi di fila, giocando una delle azioni più famose dell'intera storia del football (vedere qui). Gli Steelers, che non mollano mai nulla e ci sarà un motivo se nessuno ha più titoli di loro.

E le lacrime vere di chi perde. Venendo dominati dagli altri, così che se ne prende consapevolezza nel tempo, come una morte lenta. O con pochi secondi sul cronometro, come il fulmine dal cielo. Negli ultimi anni molte partite si sono risolte così. Veri e propri heartbreakers. E finchè non sono direttamente coinvolto come tifoso (campa cavallo...) sono quelli che gradisco di più.

E allora pronti per domenica, solita configurazione domestica. Cercherò di accumulare qualche ora di sonno in più nel pomeriggio e da un certo momento in poi si inizierà ad immettere il giusto quantitativo di caffeina che mi terrà sveglio per tutta la notte, accucciato sotto la coperta sul divano. Non è facile che mi perda quella partita. Quando negli ultimi anni è diventata un po' più "complessa" come accesso televisivo, non mi sono perso d'animo. Prima con Internet, a vedere Peyton Manning che massacra i Bears piano piano. Il top nel 2008, quando mi gustai l'indimenticabile Giants-Patriots in trasferta insubre, a casa di G, trattenendo l'urlo del trionfo alle 4:20 di mattina al TD finale di Burress. Abbraccio muto con M, ma con sguardi che dicevano anche troppo. E la sera, poche ore prima dell'incontro, in una passeggiatina per una Milano abbastanza fredda, cercavo di spiegare a V che non ci vedevo nulla di anormale nel prendere il treno alle 7 di mattina da Roma, andare a Milano, tirare notte per vedermi la partita con gli amici sperando che il cugino Gastone almeno per una volta perdesse, e ritornare con comodo a Roma il giorno dopo usando una giornata di ferie. 
Non mi è parsa convintissima. Sarà...