martedì 30 novembre 2010

Stockholm Blues

Durante un InterRail all'inizio degli anni Novanta, capitammo a Stoccolma ad agosto inoltrato. Oltre al clima mite e ai posti da vedere (città  elegante e bellina, anche se non proprio da turismo economico), non giriamoci troppo intorno: gruppettino di universitari romani va lì per motivi intuibili, su.

Per congiuntura positiva, capitiamo nei giorni del Midsommar, il periodo vicino a ferragosto, quando la città ospita iniziative culturali, mostre, spettacoli, insomma fa più che mai da centro di aggregazione in un posto dove per il resto dell'anno, per evidenti vincoli climatici, non è che ci sia una socialità propriamente mediterranea. Sottolineo il termine congiuntura, perchè in quella vacanza la parola "programmazione", che più che altro ci riportava alla mente l'omonimo esame, era stata sonoramente bandita. Questo grazie anche alla natura molto open del biglietto del treno (almeno nello spirito con cui lo stavamo interpretando). Per noi, avere quel biglietto equivaleva semplicemente a una tessera intera rete dell'autobus limitata a quelle zone lì. Troppo, troppo bello.

Insomma Stoccolma. L'obiettivo nemmeno troppo recondito di noi maschietti era chiaro. Per citare l'immenso Cetto La Qualunque, visto il numero di esemplari di ogni colore e di ogni pezzatura possibile, l'obiettivo era, per così dire, la socializzazione.

Ci troviamo quindi seduti con dei surrogati di cappuccino (lì capisci quando manca la Patria...) quando E resta folgorato da una biondina che sostava nelle vicinanze e che ebbe la fortunata idea di fargli un sorrisino. La biondina, peraltro, era anche munita di amica (se dovessi dire che mi ricordo una virgola del loro aspetto mentirei, ma le ragazze nordiche sono mediamente davvero belline). A quel punto E entra in modalità "Ho visto la Madonna" (un pensiero a Mario Monicelli, che non ringrazieremo mai troppo), e non riesce a mollare lo sguardo della fanciullina. Non è che in un gruppo di sei fatichi a trovare un secondo accompagnatore volontario, tant'è che io, forte di un inglese almeno smooth, mi offro per l'improbo compito della mediazione culturale (nota a margine, magari era caruccia pure l'amica).

Ma da quel momento in poi, il destino comincia ad apparecchiare la sua tavola.

Le tipe si muovono e vanno dove devono andare, seguite da me e da E che ci improvvisiamo pedinatori dilettanti per una città che non conosciamo nemmeno in figura. Porcaeva, prendono l'autobus. E prendiamo l'autobus. Scendono. Scendiamo. McDonald. Oddio McDonald no, eravamo al sesto-settimo giorno consecutivo, i valori del colesterolo ormai erano rilevabili proprio tramite la stecca dell'olio motore. Andiamo da McDonald. Tenui approcci visivi, ma vuoi per ordinarietà di aspetto, vuoi per un look del tutto normale (blue jeans e polo chiara, o grigia o bianca), le trattative non decollavano.

Le due simpaticone escono. Io perplesso ma E non molla. Ad un certo punto si va in una piazzetta dove, maledizione, la gente è veramente troppa. A questo punto però non puoi mollare e ti insinui a cercare fra le persone. Ci si cala in una specie di anfiteatro romaneggiante, pieno di gente seduta. Stanchi e un po' demoralizzati, ci sediamo anche noi. Magari vediamo dove sono, o male che vada ci godiamo quello che sembra uno spettacolo che sta per iniziare.

Noto una cosa un po' strana... L'unica differenza cromatica fra noi e l'uditorio è proprio etnica. Noi mori e non altissimi, loro tutti alti e biondi, ma per il resto eravamo tutti più o meno vestiti con i jeans e una maglia chiara.

Ad un certo punto tutto l'anfiteatro si alza in piedi in silenzio, e noi in piedi.
Entra un tizio sul palchetto. Noi confidenti che almeno si capisca qualcosa e si rida. Niente.
Parte una base musicale, e il tizio inizia a dirigere il coro gospel in cui ci eravamo infilati. Venti minuti esilaranti, in cui eravamo tenuti sotto braccio dai nostri vicini di coro, e dopo lo sconcerto iniziale ci siamo adattati almeno a muovere i labiali per non sfigurare.

Ritroviamo il gruppo la sera all'ostello, e veniamo accolti dall'ovvia domanda "Beh?"
Rispondo io "Un trionfo! Ve dico solo che alla fine c'hanno applaudito! Tanto se ve dico come so' andate davvero le cose non ci credete"

lunedì 29 novembre 2010

Radio Power

Come ogni forzato del traffico, non posso fare a meno della radio in macchina. Compagnia, servizio, informazione, svago. Le radio nel tempo sono diventate compagne delle troppe ore di traffico che affronto quotidianamente. Spesso mi ritrovo già con il cd giusto infilato nel lettore, ma altrimenti, per evitarmi la responsabilità di rovinarmi il viaggio scegliendo musica che non è adatta all'umore della mattinata, lascio fare alle radio.

La radio richiede un commitment maggiore rispetto alla TV. Ovvio, non ci sono le immagini per aiutare la fruizione, quindi o si dedica un neurone alla bisogna o diventa un rumore di fondo.

Nel tempo i gusti si sono un po' evoluti. E ormai, per ogni fascia oraria ho un setup abbastanza chiaro e stabilizzato nel tempo. Le radio cosiddette locali ormai non le ascolto quasi più, troppo monotematiche, solo calcio sempre calcio tutto calcio, trattato in maniere e forme fastidiose. Non c'è nemmeno più una componente goliardica, ci sono solo tanti piccoli potentati di radio diversamente foraggiate da sponsor locali, variamente agganciate a società e tifoseria. Se non fanno nemmeno più ridere è veramente uno spreco di tempo. Solo una meritevolissima trasmissione raccoglie una sorta di Blob del peggio. La ascolto volentieri ma non sempre ho orari compatibili.

Poi c'è stato il periodo Radio Radicale. A rivederlo ora ha un che di comico. Le dirette dal parlamento: mi devono spiegare perchè mi toccano sempre robuste discussioni sulla tutela del Cafrocchio Alpino o sul finanziamento alla fondazione per i 554 anni della nascita di Calpidio Fulgenzi buonanima. Avessi mai strusciato una discussione su una finanziaria, una missione militare. Mai. Il tutto intercalato da digiuni, inizative non violente, sit in, che per carità saranno il sale della democrazia ma mi spostano sempre più verso Cetto La Qualunque (genio totale e assoluto).
Le performance migliori di RR sono quelle della rassegna stampa del mattino, fra le sette e le nove. Legge, interpreta e vive Massimo Bordin, che non so nemmeno che faccia abbia. Persona intelligente, con una tenue propensione al silenzio scenico durante la lettura, o talora a robusti colpi di tosse on air che tra l'altro non possono nemmeno essere interrotti da una ipotetica e provvidenziale pubblicità. Mi piace la rassegna stampa perchè la vivo quasi interattivamente: complice il caffè che comincia ad entrare in circolo, in quella fase della giornata sto per gradi diventando reattivo. Ergo, cerco di incoraggiarlo durante i suoi angoscianti silenzi, con frasi del tipo "Beh? Me lasci così? Continua!", oppure, più frequentemente, ascolto la lettura dell'articolo, cerco di capire la sua analisi, mi trovo concorde con le premesse, mi va bene anche come sviluppa il tema, per arrivare quasi sempre a un vibrato "ma che cazzo dici!!!" quando lui esterna sicumericamente conclusioni. Il tutto col mio tono di voce, che per usare un bel demodè definirei stentoreo. E la gente nelle auto a fianco che ti guarda anche perplessa...

Adesso sono nella fase di innamoramento consapevole con Radio24, la radio de "Il Sole 24 Ore". Informazione di qualità, il minimo di infotraffico (i lavori fra Ronco Bilaccio e Barberino stanno a Radio 24 come il vento forte fra Caianello e San Vittore sta a Isoradio...), un sacco di trasmissioni di approfondimento su vari argomenti condotte da professionisti molto bravi....

Mi accollo l'onere di due segnalazioni, a prescindere dai punti di vista di ciascuno di noi che beninteso possono essere radicalmente diversi rispetto ai conduttori...
  • Nove in punto - La versione di Oscar. La trasmissione si chiama così perchè inizia invariabilmente dopo le 9.15. Il conduttore è Oscar Giannino, giornalista poliedrico con predilezione per la materia economica. Giannino evidenzia un tema al giorno preso spesso dalla cronaca, e con ospiti e interventi approfondisce una tesi che si prende il compito di argomentare già in profondità nell'introduzione. Ha un punto di vista da persona intelligente: non si innamora troppo delle sue idee, ammette onestamente le sue visioni in materia e i suoi punti di vista. Anche se non si è d'accordo, quando va male gli si concede l'onore delle armi. Da applausi a scena aperta la sua esecuzione a cappella di Star Spangled Banner e di God Save the Queen. Trasmissione seria condotta in modo brillante. Bravo davvero
  • La Zanzara. Questa trasmissione è una sorta di agorà serale. Inizialmente non mi piaceva l'impostazione data dal conduttore, ma nel tempo ho cominciato a dare un ascolto più attento e in effetti ho riabilitato di molto l'ottimo Giuseppe Cruciani. Buona la scelta di farsi affiancare da altri giornalisti come Luca Telese o David Parenzo, intelligente il taglio che spesso è volutamente polemico per smontare preconcetti e superficialità sia degli ospiti politici che degli ascoltatori che intervengono. Cruciani, non so come spiegarmi meglio, dà spesso l'idea di essere allergico all'imbecillità. Lascia intervenire, tiene, tiene, ma poi a volte sbotta. O in modo elegante, mettendo in coionella le tesi altrui evidenziando semplicemente ragionamenti beceri e contraddittori, oppure sbotta tout court, ritirando in faccia all'interlocutore o l'inevitabile sequela di luoghi comuni che ha tollerato fino a un minuto prima, o la pura e semplice inanità del suo discorso. A volte riesce ad essere finemente spietato. Per carità, non è infallibile e spesso, come ogni dialettica sana pretende, si trova anche in disaccordo coi colleghi ospiti. Ma ormai per me quella trasmissione è una sorta di filo di Arianna ideale del tragitto ufficio-casa. Più per sfida che per compagnia.
E una menzione d'onore per la trasmissione radiofonica Claudio e il professore, forse unico punto delle radio romane che fa sia ridere che pensare. Da anni, ormai.



giovedì 25 novembre 2010

eMulatori di Intellivision!

Il mercato dei videogiochi da casa nacque a metà anni Settanta, quando venne messo in commercio il famoso Pong, orripilante combo di giochetti in bianco e nero, in cui due o quattro stecche mosse con una specie di manopoletta dovevano colpire un puntino quadrato. Un robusto uso di fantasia infantile permetteva di identificare il tutto come tennis, calcio, squash, hockey, volley. Non c'era una firm vera e propria dietro a questi giochi, tutti molto uguali e uniformi. I rumori erano appena spartani, e i rimbalzi della pallina obbedivano sempre agli stessi pattern, tant'è che spesso potevi mettere le due racchettine in un certo punto dello schermo, andare a fare altro, e ritrovarle ancora a scambiarsi colpi, potenzialmente per l'eternità.

Il passaggio dalla preistoria alla storia avviene all'inizio degli anni Ottanta, quando la prima console da casa, Atari VCS 2600, ebbe un impatto sul mercato paragonabile al modello T della Ford nel settore automobilistico. I giochi erano disponibili su memorie a sola lettura, che chiamavamo cartucce. Per dodici, diciotto mesi il 2600 fu sostanziale monopolista ed ebbe modo di guadagnare una robusta posizione di dominio, fino all'arrivo del primo competitor serio, il leggendario Intellivision della Mattel.

All'epoca c'erano vere e proprie guerre di religione, ognuna delle due console aveva pregi e difetti come ogni cosa, ma i giornali di settore (va detto: carini, colorati e documentati) ovviamente avevano tutto l'interesse ad alzare la soglia dello scontro...

Verso il 1983 ebbi la mia console Intellivision, con un numero limitato di giochi. Dovevo guadagnarmeli con i voti a scuola, non erano propriamente economici visto che alcuni titoli arrivavano anche sopra le novantamila lire. La grafica era migliore rispetto a quella del 2600, veramente scarna. Il controller era un disco a 16 direzioni con annessa tastierina numerica, ogni gioco dava anche una sleeve carinissima da mettere sopra i tasti per i comandi personalizzati. In effetti il joystick era più semplice come manovrabilità, ma ho resistito col disco, sebbene fossero in vendita joystick (alcuni con un design veramente inquietante...) che potevano essere incastrati sul supporto.

Nel 1984 uscì il ColecoVision, da ricchi. Inarrivabile.

Lo stacco generazionale lo sto toccando con mano adesso. Ho un simulatore che gira su pc che può leggere tutte le ROM di tutti i giochi della console Intellivision mai usciti. Per me una specie di macchina del tempo telematica, riavere tutti i giochi che avevo da ragazzino, e in più tutti quelli che non mi potevo comperare!!!

C'erano dei giochi spettacolari: Truckin, per il quale fui anche ufficialmente primatista italiano per un po', tutte le simulazioni sportive, tutti i titoli Activision (il leggendario Pitfall, capolavori come Happy Trails, Beam Rider...) i titoli della Imagic (che belle le scatole argentate!!!) come Dracula, ritratto in foto mentre pallido come da copione e vestito col nero mantello insegue di notte le sue vittime, con l'obbligo di rientrare nella tomba prima che albeggi. Microsurgeon, dove una sondina all'interno del corpo umano deve guarire a suon di aspirine e ultrasuoni una gamma di malattie che vanno dalle infiammazioni delle tonsille ai tumori... Un po' strano come attribuzione dei punteggi, premiava molto il meccanismo tipo "L'intervento è riuscito ma il paziente è morto". Beauty And The Beast, grafica spettacolare, antesignano di Donkey Kong: scalare il grattacielo per liberare la bella dalle grinfie dello scimmione, condannato a fragorose cadute dall'ultimo piano.
Utopia, che ha anticipato i vari SimCity di una quindicina di anni... Bisognava governare un'isolotto in maniera seria, facendo piani periodici che venivano validati, confrontandosi con l'isola del vicino la cui erba era solitamente più verde e in quel caso si potevano fomentare tumulti a pagamento, a proprio rischio... Burger Time, Burning Rubber...

Un numero imponente di titoli. I cultori dell'Intellivision possono fare un salto qui, con annessa lacrimuccia...

Lo stacco generazionale, dicevo. Mostravo i vari titoli ai miei bimbi, abituati a giochi molto più veloci, molto più articolati, molto più colorati e musicali, magari scritti in flash e disponibili gratuitamente con un assortimento praticamente infinito...

All'inizio ho un po' penato a far passare il concetto che quella specie di patata informe fatta di pixel fosse veramente Mario, e che quella chiazza semovente verdastra fosse veramente Donkey Kong. Ma chissà perchè, se adesso il piccolino mi chiede "Papà, mi fai vedere un po' di giochi vecchiettini?" fatico un sacco a dire di no. E pazienza se i comandi sono un po' ostici...






lunedì 22 novembre 2010

22 novembre 1963

Se per delitto perfetto intendiamo quello in cui non si riuscirà mai ad avere certezza di moventi ed esecutori, oggi ricorre il quarantasettesimo del delitto perfetto più celebre e discusso della storia moderna.

Il 22 novembre 1963 alle 12.30 ora locale John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, venne ucciso mentre era in visita a Dallas, città tradizionalmente repubblicana.

L'omicidio Kennedy è uno dei punti che nel tempo scandiscono la storia di un paese e di un popolo relativamente giovani. Non è una storia povera di episodi, ovviamente. Ma non di quella portata. Se dovessi pensare a episodi della storia americana che hanno avuto il medesimo impatto emotivo sugli States e sul resto del mondo mi fermerei a questi tre: Pearl Harbour, JFK e l'Undici Settembre.

Gli ingredienti che a tutt'oggi rendono irrisolto e probabilmente irrisolubile il caso ci sono tutti. Non c'è un movente chiaro, solo una cointeressenza di varie lobby e vari potentati che potevano non gradire quello che stava facendo Kennedy, segnatamente il disimpegno in Vietnam e un inizio di distensione con l'Unione Sovietica che era comunque indifferibile dopo la crisi dei missili cubani.
Ma dire che forze armate e servizi segreti abbiano interesse a partecipare (seppure solo con uomini deviati in posti chiave) all'eliminazione del proprio comandante in capo è una affermazione che se non suffragata da evidenze probatorie e processuali che non sono mai emerse fa sì che l'eventuale tesi retrostante sia facilmente liquidabile come "dietrologica" o peggio "complottarda".

Emerge tuttavia come l'inchiesta ufficiale, affidata al presidente della corte suprema Earl Warren, abbia accuratamente sposato da subito una versione precostituita, per la quale c'era l'ingrediente perfetto: il capro espiatorio .
La figura di Lee Harvey Oswald sembrava cucita meglio di un abito di sartoria per una storia come questa. Oswald si era autoesposto come militante marxista-leninista (un bel cocktail, nell'America degli anni 60...). Era stato in Russia, aveva rinunciato alla cittadinanza americana. Lascia i bossoli vicino alla finestra da cui sono partiti gli spari, il fucile poco distante, si comporta in modo maldestramente ambiguo, forse è responsabile anche dell'omicidio dell'agente JD Tippit. Forse però capì di essere stato scaricato, quando era per lui troppo tardi. Arrestato un paio d'ore dopo al Texas Theatre, esposto nei locali della polizia di Dallas più volte, sembrava recitare un clichet "non ho sparato a nessuno, mi hanno negato assistenza legale". Il 24 novembre stava per essere tradotto in prigione con un blindato quando viene ucciso da Jack Ruby, un pesce piccolo morto in circostanze poco chiare pochi anni dopo. Resta comunque da capire quanta parte della verità sapesse Oswald, quale fu il suo vero ruolo.

La commissione Warren pontificò senza lasciare adito a dubbi per l'unico tiratore che ha sparato tre proiettili. La dinamica secondo la quale tre soli proiettili abbiano colpito in più punti Kennedy e ferito anche il governatore Connelly non viene però ricostruita in maniera convincente. Nonostante fosse stato disponibile da subito, il filmato di Abram Zapruder non venne acquisito, come nemmeno il filmatino dell'altro testimone Nix, che mostrava un altro tiratore, forse associabile a David Ferrie che non poteva certamente passare inosservato per il suo aspetto fisico, appostato in posizione frontale rispetto al corteo.


Il filmato di Zapruder, pur non chiudendo il caso sulla dinamica completa e sugli esecutori, fornisce una robusta tesi contro le conclusioni della commissione Warren. In sostanza dal filmato si mostra come il colpo fatale verso Kennedy fu sparato frontalmente, dal lato destro rispetto alla limousine presidenziale, del tutto inconciliabile con la posizione di Oswald, che era alle spalle del corteo e in posizione molto sopraelevata.

Come non si saprà mai nulla su molti altri quesiti, degli altri comportamenti ingiustificabili seguiti da chi aveva in quei momenti un ruolo ufficiale. Chi ha ordinato l'asportazione del cervello di Kennedy prima dell'autopsia e perchè? Perchè è stata fatta lavare la limousine presidenziale che poteva ancora fornire prove non da poco? Per quale motivo venne fatta scendere dall'Air Force One una bara "ufficiale" vuota mentre il corpo del presidente era in una cassa metallica caricata su una macchina verso l'ospedale di Bethesda?

La documentazione su questo delitto è veramente infinita. Libri, documentari, film. Personalmente cerco di fare una sorta di media ragionata su quanto esposto dalle varie fonti. JFK fu un lavoro onesto, sebbene sposasse un punto di vista forse troppo sensazionalistico e aveva tempi di racconto vincolati alla fruizione cinematografica. Ma non fu il solo Walt Garrison a cercare vie laterali per la soluzione di questo caso. Bravissimi giornalisti, storiografi, ricercatori univeristari, cittadini comuni. Tutti quanti  sembrano convergere verso una non soluzione. Quel delitto venne concepito con la stessa modalità del plotone di esecuzione: un proiettile a caso è a salve, non si può identificare nessun colpevole reale, ogni elemento potenzialmente coinvolto ha il suo robusto potere di smentita.

Il delitto perfetto, appunto. Contro un presidente che stava fornendo, come mai nessuno prima e dopo di lui, la definizione del sogno americano.

mercoledì 17 novembre 2010

Riciklazja

Come noto e arcinoto, il ciclo dei rifiuti ha ripercussioni notevoli sia dal punto di vista economico che da quello della salute e della qualità della vita .

Nel tempo due spinte convergenti hanno portato questo fenomeno al raggiungimento di una massa critica da gestirsi con attenzione, proprio perchè oltre ad una ingente movimentazione di capitali e interessi, una dinamica non controllata in modo serio e rigoroso ha impatti atroci su ambiente e salute.

Da un lato le dinamiche demografiche, che hanno popolato alcune aree in maniera sproporzionata rispetto ad altre, fino ad avere zone con densità abitative sbilanciatissime, con quanto ne consegue anche a livello infrastrutturale (fognature, strade, rifiuti, aree verdi).
In secondo luogo tutto quello che utilizziamo nel quotidiano non è eterno e viene acquistato impacchettato, per ovvi motivi di igiene e integrità, ma il packaging è spesso sovrabbondante.

Per gestire in modo sostenibile e profittevole il ciclo dei rifiuti, le pubbliche amministrazioni hanno fatto una lunga serie di tentativi nel tempo. Il risultato finale è sempre e totalmente italiano, ovverosia quando prevale una soluzione che a senso comune è del tutto lontana dall'optimum e palesemente priva di motivi, un motivo c'è.

Escludiamo volutamente la tragica situazione di Napoli e della sua provincia, che non può essere sanata a forza di proclami. Parliamo di Roma, bacino comunque sovraffollato, con robusta densità abitativa e problemi  rispettabilissimi.

Può essere utile fare una distinzione sulla base di
  • quello che percepiamo
  • quello che succede in realtà
Vedendo la situazione per così dire ai morsetti, si può dire che il decoro urbano e l'igiene nella città di Roma siano accettabili. Quello che emerge è spesso imputabile all'inciviltà del singolo (esempio chiaro: gli escrementi dei cani), ma la situazione nel suo complesso può ritenersi sufficiente. Può succedere che i cassonetti siano un po' carichi, ma mai debordanti. Atti teppistici occasionali, qualche struttura incendiata, ma può starci come rilievo statistico, non pare un dato allarmante. E non è facile gestire una città così grande. Ultimamente alcuni quartieri sono stati presi per un progetto guida per la raccolta differenziata dei rifiuti alimentari. Scarti di verdure, gusci d'uova, benedetti fondi di caffè che tamponano gli altri odori. Il tutto in una biopattumiera con fori antifermentazione e in sacchetti di plastica vegetale biodegradabile, che verranno usati per un processo di compostaggio finalizzato a creare concime per colture biologiche. Ok, andiamoci cauti. Ma il fatto che i sacchettini vadano consegnati quotidianamente (meglio) all'addetto sotto casa aggiunge anche un tocco di relationship fra client e server che non guasta. Si dà il proprio graveolente sacchettino e se ne riceve uno nuovo immacolato in cambio. Ottima idea, speriamo che proseguano e che abbiano la buona creanza di documentare i risultati ottenuti.

Ma se ci si va a documentare (dolorosissimo esempio, la puntata di Report sotto inclusa), emergono alcuni dati incoerenti. I maledetti cassonetti multifunzione. Plastica e vetro insieme, quando i cassonetti vengono movimentati (e quando poi vengono svuotati i camion), si mischiano in modo perverso. Il vetro si rompe, perchè col suo peso specifico cade. Si mischia con la plastica. Diventa problematico riciclare entrambi. Bel capolavoro. Il top è dato comunque dalla totale assenza di controlli sui parametri di aria e acqua nei dintorni della discarica di Malagrotta, che è praticamente l'unica. Polveri, percolati, acque infestate. Il tutto in una zona che sta per essere ovviamente edificata a peso d'oro e popolata. Piani regolatori di pura macelleria, a prescindere dalle giunte. L'inchiostro usato dai vincenti che scrivono la storia di oggi è il cemento, ovvio. E nel video sotto riportato viene presentata anche la modalità di raccolta utilizzata a Berlino (popolazione ed estensione territoriale pari a circa 2,5 volte quelle di Roma).




Si sta facendo qualcosa, ma abbiamo un ritardo veramente imbarazzante verso i sistemi a cui ci fa piacere essere accomunati.

Citiamo il grande Cetto La Qualunque, unico vero moderato rimasto:
"I rifiuti? Fate come faccio io. Evitateli!"

martedì 9 novembre 2010

Life after football

Quando un grande si ritira, un po' di storia della sua squadra va in pensione con lui. Va rimpiazzato prima in campo poi, più difficile, nel cuore dei tifosi ai quali ha regalato anni di football giocato con passione e dedizione, nonostante in tutto e per tutto sia stato un semplice percorso professionale. Quando parliamo di quelli veramente grandi c'è il ritiro della maglia, l'introduzione nella Hall of Fame, una maturità e una vecchiaia auspicabilmente serene fra figli, nipoti, qualche cerimonia, qualche intervista.

Vediamo Marino, Elway e Kelly in giro per il mondo a fare beneficienza. Vediamo Emmitt Smith e Jerry Rice mattatori del noto Dancing with the Stars.

Non va sempre così. A volte si pagano errori, compagnie sbagliate, fiducia mal riposta, abusi di vari tipi di sostanze dalle quali, onestamente, ci si poteva anche tener lontani.

A volte no.
Può accadere semplicemente di dover pagare una scelta dai suoi inizi, anche inconsapevoli. Di dover pagare la scelta di giocare a football.

Tre storie, con spunti per approfondimenti.

Mike Webster era veramente una leggenda. Senza nemmeno pensarci, il miglior centro a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Quattro SuperBowl vinti con i Pittsburgh Steelers, pluriconvocato alla partita delle stelle, introdotto dal 1997 nella Hall of Fame. In campo era una specie di documentario vivente, il centro a cui ispirarsi. Preciso, affidabile, tecnico, potente, pulito. Uno di quei leader silenziosi nello spogliatoio di una squadra. Visto come esempio da tutti i compagni. Iron Mike.
Dopo anni di football a quel livello, Webster pare deteriorarsi per gradi.
Le articolazioni non lo tengono, troppi dolori. Farmaci a pioggia. La sua colonna vertebrale presenta tre ernie e due dischi in sofferenza. Ma questo sembrerebbe, quasi, solo una malattia professionale. Ma tra i farmaci ci sono anche sostanze psicotrope per tenerlo calmo. Ansiolitici. Antidepressivi.
Per riposarsi, per cercare di staccare per un po' dai dolori usava su se stesso un taser gun, praticamente un'arma per autoindursi un elettroshock che gli facesse perdere conoscenza.
Parole di Garret, suo figlio: "Stava troppo male per venire alla festa dei miei dieci anni. Nemmeno telefonò, e ci rimasi malissimo. Ora so"
Webster viene trovato morto il 24 gennaio 2005 a Pittsburgh, in una stanza d'albergo, alla fine di un periodo tragico in cui a volte dimenticava anche di nutrirsi e dormiva in un furgoncino.
Il suo tessuto cerebrale era in uno stato incompatibile con l'età anagrafica, 50 anni.
Tecnicamente si parla di CTE, Chronical Traumatic Encephalopathy. Il numero enorme di microtraumi (nemmeno troppo micro) accumulati nel tempo presenta il conto, se non ci si rende conto che alcuni campanelli d'allarme (perdite di memoria, occasionali ritardi cognitivi, dolori ricorrenti) devono essere rispettati, professionismo o meno.

Dave Pear è stato un onestissimo giocatore. Non una stella. Giocava in linea di difesa con gli Oakland Raiders, quando la loro difesa faceva veramente la differenza. Una difesa che li portava a vincere anche i campionati. Oggi Dave Pear riesce a malapena a tenersi in piedi.
E avverte: "Non permettete ai vostri figli di giocare a football".
Parla con rabbia. Ha dolori sempre e ovunque. Può fare una passeggiata ogni tanto, un sonnellino, andare a fare un po' di terapia. Basta. Passa il tempo leggendo la Bibbia. Vertigini, perdite di memoria. Otto interventi di chirurgia spinale. Gli ultimi due anni ai Raiders furono devastanti. Disse di esser stato implicitamente costretto a giocare infortunato, con un'ernia cervicale in essere. Ora nè la lega nè l'associazione giocatori si curano di lui e dei molti veterani in condizioni simili. Quarantamila dollari annui a partire dal 2009. Non bastano per le cure.
"Ci sono persone che stanno molto peggio di me. Lottiamo per un sogno, quello di diventare giocatori professionisti. Poi si trasforma in un incubo. Ci serve aiuto"
Puoi giurarci, Dave.

La storia più dura di tutte parla di un ragazzo che non ha mai giocato fra i professionisti, che forse non ci sarebbe mai neppure arrivato vicino.

Owen Thomas era un giocatore di linea difensiva in in college più studio che football. Giocava con i Pennsylvania Quakers, Defensive End, numero 40. Nell'aprile di quest'anno viene trovato senza vita nella propria stanza, nel campus.

Owen Thomas si è impiccato a ventuno anni.

Non soffriva di depressione, buon giocatore, bravo negli studi. Si sarebbe detto un ragazzo a posto.
Gli approfondimenti medici hanno stabilito che Thomas aveva problemi neurologici latenti. Anche qui, lo stato del suo cervello non era quello di un atleta ventenne. Ma questa storia fa un po' più male per un semplice motivo. Owen Thomas ha pagato con la vita solo la sua scelta di voler giocare a football, forse nemmeno con aspirazioni di professionismo. Il suo cervello è stato deteriorato a causa di un enorme numero di urti "subconcussional", ovvero di normalissimi contatti casco contro casco, casco contro spalla, o gomito, o braccia, o ginocchia, o qualsiasi cosa ci possa colpire mentre giochiamo a football durante ogni normalissima e maledetta azione. Colpi ripetitivi che possono causare danni cumulativi, permanenti. Anche qui CTE. Sua mamma ha donato il suo cervello a chi possa studiarlo, per prevenire, magari anche solo per diminuire questi danni atroci. Un ragazzino mette casco e paraspalle a partire dall'età di quattordici o quindici anni. Se arriva al college football, ha già incamerato qualche migliaio di questi colpi. E poi si sale di livello. Si gioca contro quelli veramente grossi. E se si arriva nei pro, oltre alla massa entrano in gioco forza e velocità quasi vicine ai limiti fisici dell'uomo.

Questo continua ad essere il mio sport preferito, ma ogni tanto devo fermarmi e pensare.

Le storie di questi tre giocatori, presi a titolo esemplificativo in un campionario non così limitato, purtroppo
Mike Webster: A tormented Soul

lunedì 8 novembre 2010

I cento passi

Con il caso eclatante di Gomorra, abbiamo visto che un libro può diventare volano per cambiare la vita di una persona, oppure, quando va meglio, per aprire gli occhi verso un fenomeno misconosciuto, silenziato per convenienza e interesse stratificati in parti di società che continuiamo, quasi per vezzo linguistico, a definire sempre e comunque civile.

Pariteticamente, se un film fa riprendere una storia in maniera così contundente da riportare a galla una vicenda nota solo a chi segue esplicitamente le dinamiche della lotta contro Cosa Nostra, ci sono dei meriti che vanno riconosciuti,  al di là di un lavoro fatto molto bene dal punto di vista cinematografico.

E ovviamente c'è anche materia per riprendere una storia di vissuto, conoscerla e rispettarla.

I cento passi è un bellissimo film di Marco Tullio Giordana che racconta la breve vita di Peppino Impastato, militante di sinistra di Cinisi. Impastato era figlio e nipote di uomini d'onore.
Cinisi in quegli anni era proprietà privata, feudo di Gaetano Badalamenti. Paesino dell'entroterra palermitano, dove venne decisa l'edificazione dell'aeroporto di Punta Raisi. Non credo che originariamente avessero idea di chiamarlo Aeroporto Falcone e Borsellino. La costruzione di un aeroporto in quel posto lì rispondeva a logiche tutt'altro che trasparenti. Chi è atterrato almeno una volta nella vita a Palermo lo capisce subito. La montagna quasi in mezzo alla pista depone a favore del fatto che potevano esserci posti migliori e parallelamente fa riflettere sul motivo reale di certe opere. Apprezzamento dei terreni, speculazione,  indotti manovrabili grazie alla creazione di posti di lavoro in aree depresse, consenso, voti, potere.

Tutti questi razionali confluivano in un unico interesse, quello di Tano Badalamenti, capofamiglia e grande elettore della zona.

Peppino Impastato si collocava a sinistra della sinistra, urlava il suo dissenso dal microfono della leggendaria, scalcinatissima Radio Aut, esperimento artigianale ma adeguatissimo per chi voleva raggiungere nella zona. Non risparmiava critica rumorosa e irrispettosa verso Badalamenti, da lui chiamato Tano Seduto.

Il clichet che Cosa Nostra usa di solito per screditare l'avversario e renderlo spendibile anche qui viene applicato secondo schemi collaudati.

L'agguato a Peppino avviene nelle vicinanze della linea ferroviaria. Lo fanno a pezzi con una carica di esplosivo che danneggia anche il binario, per accreditare la tesi del terrorista sovversivo che muore per imperizia propria durante una azione di sabotaggio ai danni della cosa pubblica. E la data di questa barbara esecuzione viene scelta ad arte, perchè il 9 maggio del 1978 il paese è scosso per il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse dopo 54 giorni di prigionia. La notizia della morte di questo giovane forse non viene data se non in qualche giornale locale, e chissà con quale tono, visto che gli esecutori avevano pianificato con una certa cura la messinscena del terrorista maldestro, nonostante il cumulo di prove seminato con la sciatteria e l'arroganza di chi è comunque sicuro di una impunità quasi dovuta.

Il film è uscito nel 2000. Nel 1997 il processo per la morte di Peppino Impastato è stato riaperto. Gaetano Badalamenti (già detenuto negli Stati Uniti) è stato condannato come mandante dell'omicidio della giovane voce scomoda. I cento passi erano la distanza fra la casa della vittima e quella del mandante.

giovedì 4 novembre 2010

Papa Luciani

La figura di Giovanni Paolo I (Albino Luciani, 1912-1978) ha ispirato in molti di noi una simpatia quasi incondizionata, a prescindere dal punto di vista che vogliamo adottare quando esprimiamo le nostre considerazioni sulla figura del pontefice come capo della chiesa cattolica, o sulla chiesa cattolica stessa in quanto tale. Per onestà, il mio è il punto di vista di un agnostico.

Patriarca di Venezia, uomo che intendeva la missione della chiesa come partecipazione vera e viva alla vita della comunità , fu eletto il 26 agosto del 1978 come successore di Paolo VI. Eletto durante la prima giornata di conclave, con una maggioranza rilevantissima.

Giovanni Paolo I rappresentò un passaggio molto breve ma molto significativo fra un papa politico e uno mediatico (che ha cioè inteso utilizzare i mezzi di comunicazione in modo consapevole e collegato all'evoluzione degli stessi).

Il giudizio che ci si può formare su Paolo VI è delicato e non può prescindere da quanto accaduto alla fine del suo pontificato, quando, in palese deroga da ogni orientamento umanitario che si potesse ascrivere alla chiesa e alla figura del pontefice, si rese artefice e protagonista dell'infelicissima supplica alle Brigate Rosse: "Liberate l'onorevole Moro, semplicemente e senza condizioni". Questa frase, come rivelato da più parti, sostanzialmente ratificò il proposito brigatista di uccidere l'ostaggio e a detta di molti fu quasi suggerita da Andreotti. Per Moro fu l'amara constatazione che la linea della fermezza s'era saldata laddove lui confidava che cedesse, e prese malissimo questa uscita di Paolo VI, come ebbe modo di fargli sapere anche tramite una lettera dal carcere.

Giovanni Paolo I mandò da subito segnali di discontinuità. Una chiesa un po' meno turris eburnea e molto più vicina alla vita reale. Abolì l'uso del pluralis maiestatis, abolì la sedia gestatoria. Le quattro udienze del mercoledì erano sempre all'insegna di contenuti originali, esposti con una leggerezza e una familiarità quasi disapprovate dalle gerarchie vaticane, disorientate da questi modi da don Camillo. Ma i contenuti di questi discorsi erano veramente di rottura.
Da Paolo VI recepì e ribadì con forza che "La proprietà privata non è in nessun caso un diritto inalienabile ed assoluto. I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell'opulenza".
Cercò ovviamente di intervenire in maniera drastica sull'operato di Marcinkus in seno allo IOR, ma non ne ebbe tempo e modo. Paolo VI aveva dato troppa discrezionalità al pio funzionario direttore di banca. Dietro c'erano Calvi, il Banco Ambrosiano e un ammanco di circa un miliardo di dollari (del 1978!!!). La situazione era così compromessa che il Vaticano nel 1984 accettò di pagare un risarcimento di 250 milioni di dollari. E fornì il consueto salvacondotto a Marcinkus.

Sulla morte di Giovanni Paolo I probabilmente la verità non sarà mai accertabile, nell'impossibilità di eseguire un qualsiasi rilievo forense, un esame autoptico. Le evidenze fornite furono lacunose quando non contrastanti. Versioni ufficiali poco attendibili, quasi la necessità di rimuovere un evento così improvviso e drammatico. Vero è che le condizioni di salute di Albino Luciani erano già notoriamente precarie, fino al punto da sollevare in molti robuste perplessità sul perchè fosse stato eletto.

Un uomo di chiesa vero e pulito. E la storia avrebbe poi detto che questa categoria, purtroppo, non è poi così popolata.

mercoledì 3 novembre 2010

Buscetta, libro e realtà

Tommaso Buscetta (1928-2000) è stato il primo collaboratore di giustizia precedentemente organico all'associazione criminale denominata Cosa Nostra. Cronologicamente sarebbe più opportuno indicare Leonardo Vitale, ma le sue rivelazioni vennero ritenute poco attendibili a causa dell'instabilità psicologica del dichiarante.

Il fattore determinante era però correlato al fatto che Tommaso Buscetta non era un semplice informatore o uno che raccontava de relato. Buscetta aveva avuto il proprio cursus honorum in Cosa Nostra e la posizione che era arrivato a ricoprire (rappresentante della famiglia di Porta Nuova) era di assoluto rilievo nel contesto associativo. Buscetta rivelò quanto a lui noto a partire dal 1984 a Giovanni Falcone.

Anche se non viveva più in Sicilia da almeno quindici anni, il patrimonio informativo ascrivibile alla sua collaborazione non si può quantificare.

Buscetta continuava comunque ad essere un personaggio carismatico in seno all'organizzazione, e l'aggregazione Bontade-Badalamenti faceva ancora riferimento alla sua capacità di analizzare quanto stava maturando agli inizi della seconda guerra di mafia, a capire quali fossero le mire effettive del gruppo dei Corleonesi e di Michele Greco.

Pagò prima la sua militanza e poi la sua collaborazione con la giustizia con l'eccidio di figli, familiari, parenti, amici. Ma non si tirò troppo indietro. Non ritenne opportuno rivelare immediatamente quanto sapeva sui rapporti con i politici. Dopo la strage di Capaci fece il nome di Giulio Andreotti come referente romano delle necessità associative, in forza dei legami con Salvo Lima.

Il contributo di Buscetta deriva dall'aver trasmesso a Falcone (e per estensione al pool antimafia) non un semplice insieme di fatti, ma un modo di leggere questi fatti, e un modo di capire la risposta di un uomo d'onore (cosiddetto) anche da un silenzio o da uno sguardo. Giovanni Falcone sintetizzò "Buscetta è un professore che ci permette di capirci coi turchi senza esprimerci a gesti".

Per capire la persona e il contributo che fornì a suo tempo nella lotta a Cosa Nostra può essere utile la lettura di Addio Cosa Nostra, una specie di biografia-confessione scaturita dal racconto del pentito fatto al sociologo Pino Arlacchi, autore di altri volumi propedeutici ad una comprensione almeno della dinamica dei fatti di un trentennio di attività criminosa.

In questo racconto Buscetta ripercorre la sua carriera criminale, l'entrata in una organizzazione ammantata da un presunto alone di mito ma poi dedita ad attività molto meno encomiabili, per fini e modalità. Buscetta ripercorre la sua storia, i suoi tratti da uomo d'onore atipico, insofferente di vincoli e stereotipi addirittura perbenisti in obbligo dentro Cosa Nostra. Le sue fughe verso gli Stati Uniti, e poi verso Argentina e Brasile, il percorso interiore di distacco da quel sistema distorto di valori, fino al pentimento e alla collaborazione con Giovanni Falcone.

Ho letto e riletto più volte sia Addio Cosa Nostra che Gli uomini del disonore, dove il pentito catanese Antonino Calderone racconta (anche qui a Pino Arlacchi) quanto accadeva nel contesto catanese.

E' utile, molto utile leggere questi libri, ma ci sono dei limiti.
L'utilità è data dall'indubbia correttezza di rivelazioni che hanno retto a decine e decine di indagini, che danno il polso di quegli avvenimenti in maniera cronologicamente ordinata e coerente. Si capisce bene quali fossero le alleanze, i rapporti di forza, la dinamica dei fatti, la geografia del potere mafioso e la sua evoluzione nel tempo. Si ha un quadro vasto e strutturato del "chi è chi", ci si riesce a muovere anche in mezzo a soprannomi e omonimie. Insomma, ci si crea una visione informata, almeno per il periodo coperto dalle dichiarazioni dei protagonisti.

Il limite di queste letture è quasi una insidia sottile. La narrazione in prima persona, il racconto inevitabilmente personale su vissuti, fatti e personaggi talvolta crea il clima illusorio della conversazione accanto al caminetto. Buscetta e Calderone, direi comprensibilmente dal loro punto di vista, usano tavolozze ben diverse quando delineano responsabilità interne alle loro famiglie piuttosto che ai gruppi rivali. Questo porterebbe a vedere una divisione fra bene e male all'interno di Cosa Nostra da cui non posso che diffidare.

A prescindere dal contributo enorme offerto alla lotta all'organizzazione criminale, riterrei un errore omettere quello che hanno fatto queste persone quando erano ad essa organiche. Estorsioni, violenze, omicidi. Hanno pagato il loro prezzo e avuto i benefici che una legge sacrosanta decise di accordare in cambio di un apporto spesso decisivo. Ma non dimentichiamoci che non si tratta di boy scout. Si tratta di persone vere, che hanno commesso errori.
Non dimentichiamo questi errori, ma diamo loro atto dell'aiuto che hanno fornito a quella parte sana dello stato che ha combattuto contro Cosa Nostra. Con quanto ne è conseguito.