giovedì 28 ottobre 2010

Fioretti Bruno detto Mandrake...

... per via delle mie innate doti trasformistiche e per via del sorriso magico che non per vantarmi mi colloca per vocazione nel mondo dello spettacolo con naturale tendenza verso la recitazione e momentanei ristagni nel mondo della moda e delle comparse....

Questo è il fugace biglietto da visita di uno dei protagonisti di uno dei film più divertenti degli anni Settanta.
Febbre da Cavallo, diretto dal grandissimo Stefano Vanzina detto Steno, uno che ha diretto anche Sordi e Totò.
Questo film, semplicemente detto Febbre da un gruppo di appassionati insospettabilmente numeroso, ebbe un iter nelle sale molto breve, ma una gloria postuma veramente imperitura. Probabilmente pagò una localizzazione e un mood molto romani, unitamente a una congiuntura non proprio felicissima nella vita nazionale. Ma a partire da metà degli anni Ottanta venne gradualmente ripreso dalle televisioni locali che gli restituirono la gloria non avuta in sala e soprattutto contribuirono a edificare, mattone su mattone, battuta su battuta, personaggio su personaggio, un vero e proprio mito. La massa critica di fanatici delle imprese di Mandrake, Er Pomata e Felice Roversi ha fatto sì che qualche anno fa venisse girato un sequel onesto (La Mandrakata), che poggia più sul talento sontuoso di Gigi Proietti che non su una trama vera e propria o sulla bravura degli altri attori e degli altri caratteristi.

Febbre è la celebrazione delle goliardate di un gruppetto di innocui cialtroni col vizio delle corse dei cavalli. Oltre a Mandrake il nucleo è composto da "...neanche Felice Roversi vince mai, e quei pochi soldi che guadagna se li gioca tutti" e ovviamente da "Armandino detto Er Pomata che si autodefinisce tecnico ippico ma che strigni strigni è solo un disperato". I tre vivono in funzione della ricerca "der cavallo bono" e per scommettere ogni volta hanno problemi a mettere due lire insieme. Allora inventano, dal losco traffico di medicinali e la truffa all'anziano farmacista (il dottor Magalini!!!) al leggendario scherzo ai danni di "uno che da tempo va castigato... Er burino più infame de tutti i burini... Manzotin!", dove un Enrico Montesano inarrivabile ordina un etto... pardon: un chilo di carne di vitella (decente) per poi fare la coionella con il resto al figlio del macellaio .

Il tutto scivola verso una esilarante questione di vita o di morte quando l'esasperata Gabriella (fidanzata di Mandrake, una bellissima Catherine Spaak) consulta una maga che le suggerisce una improbabile tris. Lo stesso Mandrake tenta di dissuaderla, dall'alto della sua specchiata competenza, nell'immortale sequenza...  "Un re? King, 'n cavallaccio bono solo pe l'ammazzatora! Asso de spade, asso de spade... A me se me fai parlà de lavoro la mattina bon'ora me gira la testa... Asso de spade... D'Artagnan, un broccaccio propio. Fante... fante... haha... Sordatino, er cavallo più rincoionito d'Europa!".
Ovviamente la sciagurata tris di Cesena si conclude con la vittoria di Soldatino, seguito da King e D'Artagnan.

Scatta quindi il tentativo di mettere una pezza all'errore madornale, anche perchè Gabriella ha cominciato a spendere in anticipo i soldi della vincita per rinnovare l'arredo del suo bar. Coinvolgere l'avvocato de Marchis (che poi nun è manco avvocato), raccattato sulla riva del Tevere mentre stava per fare "un gesto insano", sequestrare il mitico Jean Luis Rossinì (nun perde mai!!!) e farlo sostituire da Mandrake per far vincere il Gran Premio degli Assi (60 milioni di lire) a Soldatino.... Ma qualcosa si inceppa, e il desiderio di rivalsa quasi atavico di Mandrake, alla fine di un numero di gag notevoli, porta tutti loro davanti al giudice... che per fortuna vicino ai faldoni e al martelletto tiene una copia de "Il Cavallo".

Film esilarante, da vedere, rivedere, capire tutti i personaggi.
Anche le cosiddette spalle contribuiscono.
Mario Carotenuto, il leggendario Avvocato de Marchis, che millanta il possesso di una scuderia, effettivamente limitata al solo Soldatino. Durante le riprese si racconta che Carotenuto, attore di lungo corso, andasse realmente a braccio, facendo talora scompisciare tutti dalle risate con gag volontarie o meno. La battuta data al carabiniere che vuole tenerlo all'ordine nell'aula di tribunale "Che placchi? C'è la staccionata!" è quasi una perla buttata là per pochi.
Adolfo Celi (già, il Sassaroli di Amici Miei...), nel ruolo dell'inflessibile giudice che torchia gli imputati per poi richiamare tutta l'aula al silenzio perchè "Piripicchio è figlio di Uragano e Apocalisse e basta, o faccio sgomberare l'aula!"

E almeno due gag da ridere alle lacrime.
Lo spot del Vat Sixtynine, "un fischio maschio senza raschio" e la telefonata a Manzotin.

Nota a parte quasi inutile. Tutte le citazioni riportate sono a memoria.
Con tanti saluti a Spartaco Er Ventresca.

mercoledì 27 ottobre 2010

Evoluzione della specie?

Da qualche anno ho la sensazione che la semplice evoluzione della specie stia cominciando a presentare un conto troppo salato.

Mi viene in mente il classico disegnino che abbiamo visto tutti, dall'uomo di Neanderthal al Sapiens Sapiens. Si può traslare sui giocatori, sulle loro specializzazioni, sulla velocità e sulla forza fisica. E in un decennio troviamo che un safety comincia ad avere la massa di un linebacker appena sottopeso, un linebacker quella di un defensive end, un defensive end come un defensive tackle, e un defensive tackle adesso sta difficilmente sotto i centotrentacinque chili. Vale lo stesso discorso per l'attacco. Ricevitori grossi come tight end, uomini di linea raramente sotto la soglia delle 325 libbre.

E proprio perchè si tratta di una evoluzione, la velocità media dei giocatori non diminuisce, anzi. Impressionante vedere come si muovono negli spazi stretti, la loro reattività, la rapidità nei cambi di direzione.
Spesso serve il replay per apprezzare la dinamica e la tecnica di giocatori di quella massa che nella propria area si muovono con quella padronanza, e soprattutto con quella velocità.

Bellissimo. La qualità del gioco ringrazia. Il pubblico c'è, le televisioni godono e le squadre incassano i loro diritti. Quadra tutto, fin qui.

Il rovescio della medaglia? Come nelle migliori circostanze lo troviamo esattamente all'apice del successo di questo sport, visto come business, come prodotto mediatico ormai globale. Gli esseri umani al loro interno continuano ad essere fatti nello stesso modo. E forse questo sport, che continuo ad amare in modo viscerale, sta cominciando a chiedere troppo.

La scena ormai sta diventando frequente, ma non ti ci abitui. Parte il lancio, la palla è in aria, il giocatore salta per ricevere, mentre scende è un corpo inerte in caduta. Perfettamente secondo regolamento, un decimo di secondo dopo arriva un difensore a piena velocità che lo colpisce, o per placcarlo o per fargli perdere la palla. Ci scappa il casco contro casco, o altro. Uno dei due resta a terra, si vede che è caduto in modo innaturale, troppo peso morto. Tutti i giocatori intorno che fanno ampi gesti verso le panchine, urlando "He's not moving!" I medici che corrono, compagni e avversari a rispettosa distanza che pregano inginocchiati, lo stadio ammutolito. Il giocatore che viene immobilizzato, messo in barella e trasportato sulla macchinina verso l'ambulanza, col pubblico che aspetta che faccia il gesto del thumbs up come una liberazione.
Sembra ormai quasi una parte del business e non capisci se puoi farci il callo o meno. Forse in quel momento la vita di quel giocatore è cambiata in modo permanente, non puoi saperlo.

L'argomento negli States sta diventando una specie di emergenza sociale, perchè noi vediamo quello che succede ai professionisti, ma nel college football le cose non sono così diverse. Il governo della National Football League sta valutando qualche contromisura, penalizzare monetariamente o con espulsioni colpitori e colpi che siano giudicati particolarmente vicious. La controrisposta della categoria non si è fatta aspettare, e secondo me hanno una robusta parte di ragione.
James Harrison: "Quando placco io colpisco. Non ho intenzione di fare male a nessuno ma non posso farci nulla se ti infortuni"
Brian Urlacher: "Sono tutte stronzate. Io devo prendere quella decisione in un decimo di secondo. Dire che cerco di fare male per intimidire non ha senso"

Resta la giusta intenzione di penalizzare un colpo deliberatamente portato solo con il casco. Ma anche qui ci sarebbero troppe sfumature nella casistica.

Ma leggere titoli come quelli di Sports Illustrated ("Week 6 Carnage", la carneficina della sesta settimana) fa riflettere. Come pure resta aperto uno spunto di riflessione sulla suddetta evoluzione della specie. Perchè questi giocatori, che forse andrebbero controllati e disciplinati fra i sedici e i ventuno anni, sono diventati così fuori controllo dal punto di vista fisico? Dov'è il confine fra integratori, aminoacidi, sali minerali e altro? La politica di repressione contro le droghe da prestazione negli ultimi anni è stata seria. Ma resta il fatto che il giocatore arriva fisicamente già formato. Forse è questo il problema...

C'è anche un dopo. Quand'anche una carriera di un giocatore ha avuto una parabola più o meno naturale, bisogna vedere l'influenza di traumi diffusi, continuativi e non banali. Soprattutto a livello neurologico. Ma questa è altra storia. Difficile anche questa.

Un buon articolo di Joe Posnanski.

venerdì 22 ottobre 2010

Il sequestro Moro - Letteratura minima


Il sequestro di Aldo Moro è stato innegabilmente il fatto che ha segnato la fase storica della cosiddetta prima repubblica. I fatti sono noti. Aldo Moro venne rapito mentre, da presidente del partito di maggioranza relativa, stava lavorando per aprire la partecipazione al governo anche al primo partito di opposizione.
All'atto del rapimento vennero uccisi i cinque poliziotti della sua scorta. Il sequestro durò cinquantacinque giorni, al termine del quale le Brigate Rosse uccisero Moro e lasciarono il corpo in un'auto parcheggiata a metà strada fra la sede della DC e quella del PCI.

Nel tempo questo episodio drammatico nella storia del paese è stato trattato in più modi, sia per cercare di mediare quando le varie ricostruzioni divergevano, sia, forse inconsciamente, per uscire con una memoria condivisa da lasciare alle generazioni successive, perchè resti chiaro a tutti a cosa si arriva quando si parla con le armi, forse per esorcizzare. 

A mio personalissimo parere, il cinema ha affrontato questa storia in maniera tutt'altro che obiettiva. Il caso Moro pare un instant movie, didascalico e a volte con palesi forzature della verità a scapito della narrazione. Tenuto in piedi da buoni attori (Gian Maria Volontè e Mattia Sbragia), ma se l'obiettivo è il racconto di un fatto, non ci siamo proprio. Piazza delle Cinque Lune pare un prequel di Angeli e Demoni. Dopo questi due non ho nemmeno avuto il coraggio di vedere i trailer di Buongiorno Notte, che magari sarà anche un buon film.  Decisamente migliore la documentaristica, soprattutto La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, uno dei più grandi giornalisti televisivi, quando aveva ancora senso ascrivere dignità alla categoria (con i dovuti distinguo, chiaro).


Molta letteratura, però, ha dato nel tempo il giusto peso a questo episodio della nostra storia, contribuendo a delineare fatti, persone e responsabilità in modo onesto. 

Due letture da segnalare: La tela del ragno di Sergio Flamigni, nelle sue varie edizioni, è sicuramente il testo più autorevole relativamente alla dinamica del sequestro, alla gestione politica degli avvenimenti, alle ingerenze massoniche e americane. Contiene anche il testo di tutte le lettere che Moro scrisse nella prigione del popolo e che i corrieri brigatisti recapitarono ai destinatari. Non di facile lettura, narrazione un po' piatta. Ma si tratta di cronaca e non di romanzo. Un must se ci si vuole accostare all'argomento e farsi un quadro organico completo. Non so se l'ultima riedizione abbia incluso anche le confessioni che hanno permesso individuare nella persona di Germano Maccari il cd. quarto uomo nella base-prigione di Via Montalcini.
La seconda segnalazione riguarda un libro che per la prima volta affronta la storia dall'altra parte: Il prigioniero è un libro che si compone di due storie parallele. Il sequestro di Aldo Moro raccontato dall'interno della casa di Via Montalcini, narrato da Anna Laura Braghetti che era la militante "faccia pulita" che per presenza e comportamento rendeva quel covo sicuro rispetto a controlli e segnalazioni. A capitoli alterni l'autrice racconta poi la sua parabola di vita, come si è trovata per piccoli passi coinvolta nella lotta armata fino a non poterne o volerne più uscire. Il sequestro Moro, le altre azioni armate, o per supporto logistico o per fiancheggiamento. Fino all'omicidio di Vittorio Bachelet, colpito a tradimento in mezzo agli studenti, dentro l'università. E la sua parabola di pentimento, il carcere. Il riavvicinamento ai familiari di Bachelet, persone esemplari per dignità e dirittura morale, che la accolsero e la aiutarono per lo meno a guardarsi dentro.
Non per giudicare, ma per conoscere. Lungi da me l'elogio della lotta armata.

Non mi è piaciuto L'affaire Moro di Sciascia, a suo tempo presidente della commissione parlamentare di inchiesta. Come d'abitudine, l'autore "si sciascia addosso" un po' troppo, specialmente quando si mette a giocare sul gerundio eseguendo del comunicato numero 9. Dava già idea di quel declino intellettuale che lo portò in seguito a prese di posizione veramente indifendibili, ad esternazioni quali quelle contenute nell'articolo "I professionisti dell'antimafia". Vedere un intellettuale che aveva contribuito a creare una bella coscienza di legalità giocare così malamente il proprio potere di moral suasion mette tristezza.

martedì 19 ottobre 2010

Defacement...

Si parla di defacement di un sito web quando il contenuto di una pagina esposta in rete viene alterato da qualcuno che riesca a sfruttare una vulnerabilità opportuna e a modificare arbitrariamente i contenuti. E' un reato, ovviamente. Ma dal lato del System Administrator è prima di tutto un affronto personale. E' come per un difensore subire un tunnel da un attaccante che lo lascia lì sul posto e castiga il portiere. Un'onta, che non puoi nemmeno lavare col sangue, perchè non sai neanche chi è e ha semplicemente dimostrato di essere più sveglio di te, delle tue piattaforme, delle tue contromisure e delle tue configurazioni. Insomma, detta romanamente, si entra in completa depressione da coionella.

Tempo addietro avevamo trovato la nostra personale interpretazione dell'ardito gesto. In verità abbastanza light, ma era un utile drill per ricordare che era assolutamente male non bloccare la propria workstation quando ci si assentava anche per poco. Oltre al fatto che si poteva impersonare l'imprudente anche in chat (ma si andava sul pesante e non mi risulta che sia mai stato fatto), si potevano fare dispetti ben peggiori se il malcapitato si assentava quando sul suo notebook erano attive anche sessioni verso sistemi di produzione, iddiononvoglia con privilegi amministrativi...

Insomma, per ricordare fra tutti che a volte anche dettagli piccoli possono compromettere la sicurezza dei sistemi, era invalsa la simpatica usanza di mandare una mail in nome e per conto del tizio che lasciava il pc incustodito e non bloccato. La mail veniva mandata alla semplice mailing list interna, più o meno goliardica, più o meno educata. 

Tuttavia, piuttosto che i contenuti (non sempre di puro humour britannico) era interessante vedere le perversioni tattiche maturate per ottenere l'agognato controllo della postazione del vicino e soprattutto del suo client di posta...

Alcune chicche...

Il braccio e la mente. E' necessario che A e B si pongano ai lati della vittima e intavolino una conversazione interessante contendendosi per un po' l'attenzione del malcapitato. Quando uno dei due affabula il collega fino a farlo voltare per qualche minuto dalla propria parte (sufficienti anche pochi istanti, ho visto cose che voi umani...) il gioco è fatto.

Telefonate brevi. Non sia mai qualcuno viene catturato in una telefonata importante, lavorativa o meno. Non è neppure necessario abbandonare la postazione. Qualche volta è successo che l'attaccante emuli una camminata ad altezza nano da giardino, arrivi di soppiatto in zona, e il defacement è servito. Se poi la telefonata è itinerante, più di una volta si è usata la carineria di verbalizzare quanto il malcapitato stesse dicendo all'apparecchio. Anche utile, a volte.

Non si fanno prigionieri. Mi sono quasi sentito in colpa. Ho defacciato un collega durante un rilascio in esercizio in notturna. Un povero cristo non può neppure andarsi a prendere un caffè alla macchinetta alle quattro del mattino... 

Non si guarda in faccia nessuno (più o meno). Quasi epica la prima volta che riuscii a defacciare il capo. E' stato sufficiente un lieve, bastardissimo ritardo dello screen saver di Windows. Minacciai l'integrità muscoloscheletrica dell'altro collega che voleva avvertirlo e mi misi all'opera. Una volta dal riflesso della finestra avevo notato che il capo del capo si era alzato e non aveva bloccato il notebook. Lampo maligno nello sguardo, ma il capo mi inchioda lì.
"Fermo!"
"Ma che prenne d'aceto?" (ndr. "Non la prende benissimo", "si risente")
"Io eviterei!"

Ma soprattutto...
Non ci si ferma davanti a nulla. Inizio agosto 2005. Indimenticabile. Pomeriggio estivo. Scossa di terremoto con epicentro a pochi chilometri da noi. Si comincia a ballare per lunghissimi secondi. Molti cominciano a prendere i propri effetti personali: calendari scollacciati, palloni da rugby, cavalletti di scooter. Escono veloci e disciplinati dalla porta di sicurezza, sebbene allarmata, e scendono in cortile dalle scalette. Due indefessi restano inchiodati alle loro postazioni, con tutto che il palazzo si muove per un bel po': io e G. Silenzio irreale. Cenno di intesa tra noi. 
"Antisismico?" 
"Antisismico!"
Disciplinatamente ci siamo alzati e abbiamo fatto un bel numero di defacciamenti gratuiti a strascico 

N0st41g14 

lunedì 18 ottobre 2010

La comunicazione aziendale

La comunicazione nel contesto lavorativo è un punto imprescindibile, ormai. Essa influenza il modo in cui facciamo passare i nostri messaggi e indirettamente anche come questi verranno recepiti. Ancora più importante, è ormai invalso un modo comune di identificare contenitore e contenuti, soprattutto in un contesto in cui internet è il vettore principale delle comunicazioni, quando non direttamente il core business che si sta gestendo.

Insomma, devo tenere conto che dietro le mie mail ci sono io, e vengo percepito dagli altri di conseguenza. Vale la proprietà commutativa, ovvio.

Non essendo ormai più un pivellino, qualche cosa che almeno sembri una best practice nel tempo l'ho sedimentata. 

Fondamentale: verba volant, e-scripta manent. Questo significa prima di tutto che non si polemizza pressochè mai via mail. Qualora emerga la necessità di far valere le proprie ragioni, queste devono essere inattaccabili e comunque va fatto con il dovuto profilo basso. In caso contrario aumenterà di uno il numero di persone sedute sulla sponda del fiume ad aspettare la nostra deriva, ovviamente.
Ne consegue quindi che la sintesi è sempre ben accetta, quando riusciamo comunque a veicolare quanto necessario in modo completo. Non sono le email il posto per divagazioni letterarie, per diverbi interpersonali, per rifare la storia di un problema noto ab urbe condita. E peraltro: piano con le citazioni in latino, specialmente quando traballa lo scheletro della comunicazione anche in italiano. Si tollerano a fatica i termini tecnici mutati dall'inglese per necessità pratiche, ma non amo gli eccessi e cerco di fare una certa attenzione... In sostanza, oltre a formattazione tollero pochino.

Quindi mi ritrovo queste tre formule personali ormai codificate, a prescindere dall'interlocutore, singolo o gruppo, tecnico o gestionale.

Per tenere traccia viene solitamente incluso all'inizio della mail dopo un cortese saluto iniziale. Va letto come "Faccio il c@x*° che dico io, ritieniti fortunato che ti informo". Va da se che la prima formulazione dispone il lettore nello stato d'animo perfetto, tipo "magari a questo frega anche qualcosa della mia risposta..."

Grazie anticipatamente viene untuosamente messo verso la fine del messaggio, qualora vi sia necessità di segnalare che il processo oggetto della comunicazione è bloccato in attesa che il ricevente versi il suo obolo di conoscenza e mi permetta di proseguire. Leggibile come un "Ancora non l'avete fatto?"

In attesa di riscontro è palesemente un peggiorativo della precedente. Molto vicino a "Mi sto dirigendo presso i tuoi quartieri. Scegli se fornire le tue giustificazioni ad un pitbull molto motivato o la demolizione a testate di tutto quanto si trovi a portata. Cordialità"

Il tutto in buon italiano, pare chiaro :)

mercoledì 13 ottobre 2010

Manuel Fantoni

Stamani al bar, quasi distrattamente, mi cade l'occhio su un trafiletto. Ieri ci ha lasciato Angelo Infanti. Non per mancanza di rispetto, ma anche sul giornale veniva riportato il nome del personaggio più riuscito a questo onestissimo caratterista. 

Manuel Fantoni.

Borotalco è stato uno dei film più riusciti della prima fase di Carlo Verdone. Trama leggera, simpatica e coerente. Ma uno di quei lavori che nel tempo ha cementato la sua dignità, rimanendo una miniera di atteggiamenti da imitare o meno, di citazioni, potenziale argomento per una serata fra amici. 
Quel film è stato un incastro felice. 
Un buon protagonista, Carlo Verdone che interpreta un ingenuo trentenne alle prese con un lavoro non proprio per lui
Una notevole spalla: Christian De Sica, nei panni di uno scalcinatissimo aspirante cantante. Amico cialtrone e opportunista che è meglio perdere che trovare.

E due caratteristi inarrivabili nelle loro interpretazioni. 
Un Mario Brega quasi leggendario, nei panni del suocero di Verdone. La passeggiata a Via Veneto con la figlia sconfina nel mito.... "Papà, ch'è successo?" "Gnente.... Due de passaggio... 'Nnamo a comprà le scarpe."

E appunto Angelo Infanti, nel ruolo del bon vivant architetto Manuel Fantoni. In realtà non è architetto, non si chiama Manuel Fantoni ma molto più banalmente "Cuticchia Cesare", e visita con discreta regolarità le patrie galere. Ma è subito il personaggio che ti ruba la scena con il suo io esagerato, con l'appartamento da sogno, la vasca da bagno sul balcone dove nuota una giovanissima e sontuosa Moana Pozzi. E ti conquista con i suoi racconti di vita vissuta, quando decise di "optare per il mare" e imbarcarsi sul leggendario cargo battente bandiera liberiana, ignorando se la Liberia fosse al nord o al sud, quando buttò fuori di casa un Richard Burton ubriaco, reo di avergli vomitato sulla moquette.
Confessioni esistenziali, verità sconvolgenti che mai nella vita immagineremmo, culminate nel leggendario "Tu lo sapevi ad esempio che John Wayne era frocio?".
Il tutto che sfocia nel leggendario "NUN E' VERO GNENTEEEE!!!! T'ho raccontato un sacco de fregnacce!!!"

E da quel momento, per incastri vari, il povero normale Verdone tenta di calarsi nella fascinosa figura di Manuel Fantoni, un equivoco e una frottola via l'altra.

Resta il personaggio con l'alone leggendario, che conosce tutti ha fatto e visto tutto, sa tutto e può tutto, specialmente per conquistare una donna.

Peccato riferirsi come semplice caratterista a chi ci ha regalato un ventennio di spunti, citazioni, risate, idee folli.

Da ieri Manuel Fantoni non c'è più.



martedì 12 ottobre 2010

Liceo Classico - Latino e Greco

Ogni tanto metto da parte il tono pseudo politicamente corretto e mi permetto di andare giù di zappa, segnatamente se può scapparci una risata. Forse questo è uno di quei casi.

Una delle figure più esilaranti della mia adolescenza è stato senza ombra di dubbio il prof. di latino e greco del liceo, che è esattamente il tizio in foto. Era preceduto da una fama non proprio edificante e diciamo che ha onorato in pieno quanto si paventava.

La prima abitudine perlomeno discutibile può essere semplicemente definita come il racket delle ripetizioni. Si insediava in una nuova classe, e per il primo quadrimestre bastonava sistematicamente anche le virgole. Questa scrematura iniziale gli consentiva di farsi una idea di quella che era la fascia debole della classe, costituita banalmente da coloro che erano sotto il quattro e mezzo. Metodicamente convocava i genitori dei fortunati prescelti, lamentava la cronica carenza di basi, unita alla mancanza di buona volontà... Insomma il quadro era drammatico, e di solito investiva sia il latino che il greco. E magari al classico le due materie hanno il loro peso. A quel punto, avesse o meno il genitore chiesto un suo suggerimento per porre un rimedio alla situazione, immancabilmente lui si sentiva in dovere di fornire indicazione di un collega preparato e scrupoloso che ovviamente ricambiava il favore con i propri ciucci, come venivano collodianamente etichettati. Il tutto a prezzi tutt'altro che modici e ovviamente esentasse. Non scrivo altro per pudore.

Il secondo dato caratteriale veramente fastidioso era il comportamento pseudopaternalistico verso gli alunni. Anche qui erano discriminati quelli con i voti più bassi, apostrofati in modo non sempre urbano. E lasciamo perdere battutine e doppi sensi verso le ragazze, con comportamenti più di una volta almeno borderline.

A questo punto uno potrebbe chiedersi... "Ma porca miseria, voi non facevate nulla?". Inizialmente no, passata l'ondata di terrore iniziale quelli che navigavano sopra la sufficienza erano troppo troppo impegnati a ridere e a sfotterlo, mentre gli altri avevano la consapevolezza un po' amara di aver comunque pagato per un servizio, diciamo così. Va detto che il personaggio aveva un appeal comico terrificante. Sovrapposizione pressochè perfetta di due sfere, testa e trippa, quando lo vedevamo da lontano in corridoio che arrivava con la sua andatura caratteristica e sbuffando col sigaro, dava più l'idea del treno che non del prof. Le spiegazioni erano diventate difficili da seguire, se non altro per le lacrime agli occhi usate per reprimere le risate quando mimava, con indubbio talento partenopeo, tragedie sofoclee o satire di Orazio, quando accentava robustamente anche consonanti, quando si lasciava andare ad atteggiamenti anche fisiologici poco consoni ad un liceo bene della capitale.

Ma per saggezza dei proverbi, le vendette migliori sono quelle servite fredde.

Bon. Anno della maturità. Cena in pizzeria del centro. Essendo la mia classe ridotta ai minimi termini per precedenti robuste tornate di bocciature, coinvolgemmo anche i primini e quelli della seconda liceo, proprio per sostenibilità economica dell'impresa. Ad un certo punto M ed io ci assentiamo per un po' alla ricerca di un pusher di Guttalax aperto in zona. Rientriamo in pizzeria, con aria circo-e-spetta. La serata prosegue liscia fino alle ordinazioni, dove un po' timorosi un po' sfacciati ci avviciniamo al pizzaiolo per invocare quel minimo di complicità necessaria a quella che voleva essere una semplice ragazzata.
Il tizio ci risponde con aria sdegnata! "Ma per chi mi avete preso, ma che per le vostre cretinate da ragazzini io ci vado a rimettere il lavoro?" E poi, strizzando l'occhio..."Chi è la vittima?". Venimmo spudoratamente favoriti dalle circostanze. Il prof stava spanciato in posizione triclinium tra un paio di inconsapevoli sedicenni pure affumicate dall'immancabile fetentissimo sigaro. Noi, prendendo coraggio... "Quello che fuma il sigaro!". Il pizzaiolo, trasfigurato... "Quello????". Prende il Guttalax e ne spreme metà bottiglina sul calzone ordinato dal prof (tanto l'utile farmaco è inodore incolore e insapore). Noi temiamo che abbia esagerato, ma ormai siamo in ballo e balliamo... Dopo un'oretta di normalissimo clima conviviale, il prof comincia ad accusare un po' di disagio, diciamo così. Noi, facce da poker, continuiamo le nostre chiacchierate da maturandi anche con gli altri prof. Altri dieci minuti e la professoressa di Italiano ci annuncia che il prof le ha chiesto di riaccompagnarlo, che non si sentiva benissimo. Zitti, espressione imperturbabile. Solo un'anima candida che propone di accompagnare entrambi, noi lasciamo fare al fato, forse un testimone in più nemmeno guastava, ma tant'è.

Il mattino dopo...
"Professoressa, ma cosa aveva ieri sera il professore?"
"Ragazzi per l'amor di Dio sorvoliamo".

Priceless.

Peccato per l'innocente professoressa di Italiano, che credo abbia direttamente portato la sua A112 alla demolizione ;)


giovedì 7 ottobre 2010

The art of quarterbacking - Dan Marino


Non posso scrivere un post ragionato su Dan Marino. E' uno dei due sportivi da cui la mia normale esistenza di tifoso ha avuto di più. L'altro è Ayrton Senna. Ma Senna, purtroppo, molto presto è diventato solo un'icona. Marino no. Il suo modo di giocare, il suo modo di lanciare mi hanno dato amore e passione per il football oltre ogni ragionevole limite.

E' per lui che tifo in modo viscerale per i Miami Dolphins.
E' per lui che ho preso un pallone in mano, ho provato a lanciarlo, poi ho messo anche un casco e un paraspalle e il resto e ho insistito.

Non mi viene semplice parlare del Quarterback, del giocatore che s'è ritirato con venticinque record per quanto riguarda il suo ruolo, che per diciassette anni ha fatto sì che tutte le difese si preparassero contro di lui, sapendo che con lui in campo le partite finivano veramente all'ultima azione. E' quasi una questione di cuore. Un modo di sentire un ruolo.

Negli States mi regalai un bel libro autobiografico "My life in football", imbottito di foto. Un racconto semplice di una persona molto semplice, in fondo. L'amore per la famiglia, l'amore per il football. Una vita privilegiata sotto molti aspetti. Una figura nota e amata dalla comunità, dove svolge ora un bel ruolo. Un quadro di confortante normalità. Uno perbene.

Aneddoti, ovviamente.
Nel 1979 i Kansas City Royals di baseball scelgono due ragazzotti appena entrati al college per il ruolo di pitcher... Al quarto giro Daniel Constantine Marino. Al diciottesimo John Albert Elway Jr. Non so quanto ci capissero di baseball, ma per il football questi signori erano avanti...
Il primo lancio da universitario a Pittsburgh? Un intercetto. Pazienza. Il terzo fu un touchdown.
Le riprese di Ace Ventura. Tutti febbrilmente ad allestire scenari, a predisporre luci. Lui seduto là, un pallone a terra. Uno dei tecnici delle luci fa segno... "Dan! I'm open". Lancio. Una comparsa... "Dan! I'm open". Lancio... Nell'arco di dieci minuti in sostanza si era in pieno allenamento...
Il primo schema chiamato in huddle con i Dolphins, cercando la fiducia nello sguardo dei compagni. E il provvidenziale Nat Moore che gli dice "E' sbagliato, il coach ha detto questo". "Ok ragazzi, al due!"
Il nefasto numero 13. Il babbo era l'allenatore della squadra di baseball nel quartierino di Pittsburgh. Restavano tre maglie e tre giocatori. Le maglie erano 13, 14, 15. E il padre gli disse "Sei il figlio dell'allenatore, dovrai scegliere per ultimo". Quel numero gli è rimasto per una vita sana :)
Si potrebbe proseguire, ma appunto, è tutto molto semplice e lineare.

Dove scatta la molla?
La passione che quest'uomo ci ha messo per diciassette anni, trascorsi nella stessa squadra. Ogni maledetta domenica, si direbbe. Non ha mai mollato nulla, ha vinto, ha perso, s'è preso colpe sue e non. Ha recuperato da una rottura del tendine di Achille, magari scherzandoci "Tanto non ho mai risolto nulla correndo". E senza alcun margine di dubbio, è rimasto il primo nome che emerge nella storia dei Miami Dolphins anche dopo il suo ritiro, anche dopo il ritiro della leggendaria maglia numero 13.

La sua tecnica di lancio, rimasta unica come uno Stradivari. Quel movimento che nessuno, nè prima nè dopo, è mai riuscito neppure ad eguagliare. La velocità nel rilascio del pallone, che gli faceva guadagnare quel mezzo secondo che non aveva nelle gambe. E la potenza, ovviamente. Arcobaleni che ricomparivano cinquanta o sessanta yards più avanti nelle mani di Clayton o di Duper. Traccianti che viaggiavano venti yards sulla stessa linea ad una velocità irreale fino a trovare OJ McDuffie.

Il rispetto verso compagni e avversari, il sentirsi una sola cosa con la linea d'attacco e i ricevitori, ringraziati durante il ritiro della maglia con un toccante "Thanks to all of you guys, you have made life easy for me"

Le parole di Don Shula, quando incoraggiava il suo Quarterback in allenamento, prima della dream season del 1984. "Pick a guy, let it fly": scegli un bersaglio e fai volare quella palla.

Non mi interessa molto se periodicamente gli viene rinfacciato il nulla vinto. Per diciassette anni è stato braccio e cuore di Miami.

Per me è semplicemente Marino e non mi interessano disquisizioni su "il migliore" o meno.
Gli devo molto, a modo mio.
Grazie di tutto, Dan.