martedì 28 settembre 2010

Goldrake Physics


Goldrake è stato probabilmente il primo cartone giapponese sui robot guerrieri a passare sulla TV italiana. Da piccolo era una festa, ogni pomeriggio sul secondo programma, verso le sei e mezzo.

"Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole...".

La tele in bianco e nero, stavo là col magone fino alla fine della puntata, cominciando da lì a maturare un concetto di distinzione fra il bene e il male, quand'anche limitato alla flotta di Vega.

Nel 1994, sotto esame di Reti Logiche, con A avevamo messo su una indefettibile tabella di marcia. Ore 20.30, su tv locale: puntata di Goldrake. Poi si facevano gli esercizi di esame, ma anche fino alle tre di notte.

La rivisitazione di Goldrake da parte di due venticinquenni fin troppo fiscali con la realtà che hanno intorno fece emergere un bel grumo di irrisolti esistenziali. Dissertazioni sullo spirito guerriero, problemi di fisica elementare, strategie di ottimizzazione bellico-industriale. Insomma, tutto quanto possa confluire nella definizione di cazzeggio.

Per ordine...nemmeno troppo...
  1. Actarus. Il buono della storia, un Chuck Norris dal profilo basso. Ad ogni puntata è costretto a tuffarsi nel condotto della biancheria sporca, inforcare una razzoslitta dal comportamento dubbio (vedere punto dedicato), mollare la medesima non prima del termine del leggendario jingle che ognuno di noi pensava fosse effettivamente l'inno giapponese. A quel punto, lui urla "Gooooldraaakeeee...." e si materializza una tutina rossa che farebbe di lui un degno sesto dei Village People. Entra esatto al millimetro sul sedile di guida. Goldrake sta là pronto scodinzolante, partono e spaccano tutto. Alcuni dubbi a margine. Posso capire che se il robot viene colpito da scariche elettriche ci sta che lui prenda la scossa e strilli. Ma se il robot prende un calcio sugli stinchi dal robot nemico, perchè Actarus si lamenta? Ha problemi col mutuo? Si ricorda l'ultimo passaggio dal carrozziere? Mah. Contento lui
  2. La razzoslitta sopra menzionata. E' un gioiellino, che porta Actarus dentro le viscere della base spaziale fino all'antro dove è parcheggiato Goldrake. Bene. Quando Actarus la molla, a senso comune deve lasciare la manetta del gas. Quando lo fa, 'sta cosa ha una tangente quasi orizzontale. In teoria non ha più spinta. Dove finisce? Ipotesi ardita: sul muro di fronte c'è una sorta di aspirapolvere ma potente una cifra che si acchiappa un coso che almeno pesa il suo quintale e lo stipa da qualche parte. Più realisticamente, sul muro di fronte c'è una parure completa di razzoslitte "appuntate" col naso, e ciclicamente vanno lì a riprenderle per ricominciare la serie. E vabbè.
  3. Le manovre di Goldrake. Lasciamo stare le uscite segrete, che ci deliziavano al punto tale da pensare che ce ne fosse una alla fermata della metro vicino casa. Ragioniamo sulla semplice uscita principale. Mette in moto, tira la cloche, scivola docilmente e parte a razzo. Bene. Il portellone si apre: è incernierato in alto, si apre di circa 90 gradi (quindi non è a scomparsa). Goldrake impenna di seconda per evitare il frontale col costone roccioso di fronte, e va alla ricerca del nemico. Riflettevamo sul fatto che nessuno ha mai visto Goldrake rientrare alla base e si può capire perchè. Da dove è uscito, non ce la farà mai. Un disegnino aiuterebbe, ma fidatevi. Resta la sensazione che questi ogni volta smontino una robusta parte della base per farlo rientrare, e la riassemblino poi tra una puntata e l'altra.
  4. Armi e tecniche di attacco. Con circa tre serie intere di imbattibilità, c'è unanimità sul fatto che 'sto robot ce le ha veramente quadrate. Perplessità varie: la dotazione di armi di bordo è a tariffazione? Nel senso... a che ti servono le lame rotanti quando hai il tuono spaziale proprio lì, il tastino a fianco? E poi... ma perchè deve dichiarare ad alta voce quello che usa? Io dico, magari strilla "maglio perforante"... L'avversario pensa "Vai, questa la paro", e tu gli cali i disintegratori paralleli o i boomerang. Vedi poi che faccia fa.
  5. Il nemico, pianificazione dello sforzo bellico. Qui le cose non mi tornano davvero. Questi hanno un'industria che fa paura, diciamolo. Ad ogni puntata mandano giù un mostro nuovo di fabbrica ancora in garanzia, che inevitabilmente prende gli schiaffi. Prendersi due settimane di pausa? Ne mandi giù una decina. Anzichè le solite sovraimpressioni nipposcritte per il singolo mostro (chissà... magari si chiamano "U Curtu" o "Peppino Scorrettezza"), ne metti una sola, inequivocabile... "E mo'?"
  6. Il nemico, gestione risorse umane (o quasi). Inevitabilmente ogni puntata non può prescindere dal solito meeting sull'astronave madre, che si conclude con il solito "Tu, tu, tu e tu sui minidischi!!!". Gli sfigati col cappuccio verde obbediscono e zitti. Ma mai uno che risponda con opportuno gesto dell'ombrello, magari dicendo "Dottò, ma il filmato della puntata scorsa l'ha visto? Trentacinque minidischi in due minuti, gli ultimi quattro morti in un tamponamento a catena con l'altro disco giallo. Forse non è cosa...."
Inevitabile trionfo del bene, se il male si fida di questi :)
Nostalgia!

lunedì 27 settembre 2010

The Blind Side

Ci sono storie così incredibili che non possono che essere vere. Una di queste ha ispirato un film stupendo, molto americano ma profondissimo, delicato, commovente. E che lascia qualche spunto di riflessione.


Fino ad un certo punto della sua vita, Michael Oher aveva tutto il diritto di ritenersi figlio di un dio minore. Padre spesso in carcere. Madre alcolizzata quando non peggio. Analfabeta. Tredici fratelli. Uno di loro cerca di farlo prendere in un buon liceo cattolico, Wingate, magari con la scusa del basket. Michael è un ragazzone silenzioso. Non pare integrarsi bene, l'ambiente è abbastanza elitario. "Big Mike" si procura da mangiare andando a raccogliere gli avanzi di popcorn dopo le partite di pallavolo. Saluta i bimbi, che non sono poi intimoriti da questo gigante dagli occhi tristi.

In una notte di pioggia, una famigliola bene della zona che rientra a casa al caldo del proprio SUV nota questo ragazzone che vaga da solo.
"Dove stai andando?"
"In palestra"
"Perchè?"
"C'è un po' di caldo".

Da quel momento in poi Michael viene accolto in quella casa, in quella famiglia. Viene vestito, nutrito con amore, trova altri due fratelli più piccoli e due genitori che lo seguono. Una madre che non è la sua che lo fa parlare, si preoccupa dei suoi studi. Calore materno. Gli racconta le favole, lusso che lui prima non ha mai avuto. La stessa favola che leggeva sempre ai suoi figli, quella del toro Ferdinando.

La scuola è difficile, selettiva. Michael fa progressi ma il gap rimane imbarazzante. Nei vari diagrammini in cui vengono vivisezionati i ragazzi Michael è carente in tutto, tranne che in "Protective Instinct". Questa sua dote, chiusa dentro un cuore che fino a poco prima non interessava a nessuno, stava per diventare la chiave di volta della sua vita.

Nel football "il lato cieco" è il punto critico più noto. E' il lato opposto alla posizione naturale di arretramento del quarterback. Se lancia con il destro, il lato cieco è il sinistro. Il quarterback non vede cosa succede da quella parte, o spesso lo vede troppo tardi. Il giocatore che protegge il lato cieco è la polizza sulla vita del quarterback. Dedica se stesso (pagato profumatamente, per carità) ad impedire che passi anche uno spillo da quella parte. Un suo errore può stroncare una carriera.

Michael Oher comincia a giocare come Left Tackle. La responsabilità del lato cieco. Esplode fisicamente e come talento, riuscendo a fare quello per cui si sente pronto. Proteggere ciò a cui tiene di più. "This team is your family. Protect your family, Mike".

E si applica a scuola, con i suoi limiti. Ma con dedizione, sacrificio, aiuto anche i suoi voti migliorano. E la famiglia che fino a quel momento praticamente lo ospitava e basta, diventa a tutti gli effetti la sua vera famiglia, anche a livello di tutela legale.

Il film merita, Sandra Bullock superlativa (premio Oscar come migliore attrice protagonista). In Italia non è passato per la distribuzione cinematografica. Mica è il panettone natalizio, non sia mai.

Che fine ha fatto Big Mike?
Protegge il lato cieco di Joe Flacco, quarterback dei Baltimore Ravens. Non male, Michael.

E come ha detto Leigh Ann Tuohy, quella persona fantastica che ha riscattato una vita, quando lo vede non può non pensare alla favola di Ferdinand the Bull.

mercoledì 22 settembre 2010

Nuria Monfort

Nuria è un incastro infelice. La grazia, la bellezza e l'intelligenza. Al posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Nuria è la figlia del buon Isaac Monfort, il custode del Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo mistico di Barcellona dove ogni libro viene salvato dall'oblio in un modo in cui solo un certo custode sappia come e dove recuperarlo, curarlo, amarlo.

Ma Nuria ha una vita al di fuori. E' bella, intelligente, emancipata. Viene mandata per lavoro a Parigi, dove avviene l'incontro fatale con Julian Carax, che la ospita più per buona educazione ed empatia da concittadini che per secondi fini, quasi comprensibili vista la sua bellezza. Ma sono tutte coincidenze perverse. Julian era stato spedito a Parigi con i soldi del suo amico Miquel per salvarsi la vita. Julian non ama Nuria, che invece se ne innamora. Solo passione occasionale per lui, sofferenza eterna per lei. Lei si nutre degli scarti dei sentimenti di Julian. E quando torna a Barcellona si rende conto dell'inversione di prospettiva, perchè Miquel dovrà nutrirsi degli scarti dei suoi.
Con tutto che diventano marito e moglie, ma solo per rispetto reciproco, per farsi forza del loro passato e di interessi convergenti. Miquel è rampollo emarginato di una famiglia bene, si ammalerà e al momento del ritorno di Julian darà la sua vita per l'amico. E Nuria si continuerà a tenere gli scarti di Julian, ormai ben oltre la soglia della follia.

Nel 1955 Nuria abita in un bugigattolo vicino Plaça de San Filip Neri (in basso). Daniel Sempere, poco più che adolescente, va a cercarla lì, portato dal patto invisibile che lui ha fatto con il libro di Carax. Tutti i libri di Carax stanno facendo la stessa fine. Bruciati.

Nuria si mantiene traducendo lettere di commercio, più redditizie della letteratura. Passa il tempo a studiare in piazzetta, perchè la casa è troppo buia e non ha di che illuminarla. Torna nel suo studiolo, perchè lì ha le matite tutte temperate e ordinate e la cartellina delle bozze pronte. E in silenzio gestisce la sua doppia vita, la necessità di curare e accudire Julian, di tenerlo lontano dalle mani lorde di sangue dell'ispettore Fumero.

Daniel ascolta la sua storia, resta affatato dalla sua bellezza che non accetta di sfiorire, dalla forza chiusa di questa figura. E le ruba un bacio andando via. Ma lui e il povero Fermin non si rendono conto di aver messo Fumero e i suoi sulle sue tracce, e quando lei lo capisce non si può più fare nulla. La uccidono a coltellate il giorno dopo, bella e sola come era sempre stata.

Lascia ad Isaac un manoscritto da consegnare a Daniel, dove ci sono tutte le notizie che lui voleva sapere, dove c'è la prova che lei non ha tradito nulla e nessuno.

"Non dimenticarmi Daniel. Non permettere che io vada via per sempre".

L'ombra del vento (Carlos Ruiz Zafon, 2001) è uno dei libri più coinvolgenti che io abbia letto ultimamente. Storia poco probabile, ma con ingredienti del tutto unici. La presenza di una "grande madre" Barcellona, che non ha solo la funzione di palcoscenico. La coloritura, l'impasto dei personaggi, delle loro storie e dei loro sentimenti.

Nuria Monfort è la figura femminile che mi ha toccato di più. Nasce vive e muore in qualche decina di pagine. La sua tragedia di donna fatale "al contrario", che spende tutta se stessa in una causa persa, non può non suscitare empatia.

Ma quel libro è un piccolo capolavoro. Consigliato, se posso permettermi.

"Ci sono prigioni peggiori delle parole". She's damn right



venerdì 17 settembre 2010

Buon vicinato aziendale

La sede in cui sono da ormai otto mesi mi piace. Decentrata ma non troppo, raggiungibile in auto oppure con mezzi e navette da varie parti, nemmeno troppo lontana da casa. Se va proprio male male sono tre quarti d'ora. E dopo anni di quotidiane gite fuor di porta sto apprezzando la gioia di dover fare soltanto ottanta chilometri al giorno.

Altri aspetti positivi. C'è il nido aziendale. Il traffico di genitori e pargoletti nel luogo lavorativo mette una nota allegra. Il nido è grande, pulito, colorato, pieno di giochi e di voci.

La mensa non è un ristorante, ovvio. Ma è ben ottimizzata e poi c'è anche l'opzione del trancio di pizza, assente nelle altre sedi.

Altra cosa che mi piace: la postazione di infotraffico accanto all'ascensore, così quando sei in uscita, col notebook impacchettato nello zaino, ti fai una idea di cosa ti aspetti, e al limite di valutare itinerari alternativi.

Un sacco di gente, incontri facilmente amici e colleghi, bar all'interno di ogni palazzina. Insomma, sono stato in posti peggiori...

From now on, disattivo il filtro del politically correct per un po'...

Due cose non riscuotono propriamente la mia entusiastica approvazione. A pochi metri dalla mia stanza ci sono i distributori automatici. Notoriamente, il caffè di quelle macchinette non può sostituire quello del bar in nessun universo possibile. Ci sta che per emergenza uno debba calarsi un po' di caffeina in vena, e accetti il rischio. E poi ci sono altre due macchine per bibitame vario, chewing gum, caramelline. Ovviamente funzionano con chiavetta o monetine, ovviamente sono piccoli luoghi di aggregazione e quindi alleni l'orecchio alle chiacchiere del lunedì mattina o alle varie menate stile Camera cafè che ascolti anche involontariamente. L'orecchio si rassegna un po' meno quando scatta l'ira del consumatore, cioè quando le macchine infernali defraudano qualcuno dell'agognato bene. E' un sacrosanto diritto, ma reputo più costruttivo lasciare nota a chi gestisce l'oggetto piuttosto che trifolare l'esistenza a chi sta nelle stanze a fianco tentando di shakerare gli armadioni metallici, peraltro molto poco ricettivi delle pur legittime istanze.

Ma avere sti cosi vicino ha comunque anche dei pregi.

Dove non ravviso alcun pregio... C'è una simpatica presenza, a qualche stanza da qui, che ha l'inveterata abitudine di fare le proprie telefonate, tutte, facendo il pendolo davanti alla porta della mia stanza. Tono di voce querulo e volume alto. Quando dico alto, significa che anche con le cuffie sono spesso coinvolto nelle sue accessorie conversazioni.

Da qualche giorno, essendo la misura ampiamente colma, sto valutando qualche tipo di rivalsa.
Ordinatamente:

  1. Disturbo attivo... Tu vieni qui a passeggiare sul mio sistema nervoso coi tacchi a spillo, io mi attrezzo e non appena ripassi metto a tutto volume l'immortale scena di Ovosodo in cui il tizio pronuncia la parola Wyoming. Ruttando.
  2. La legge del taglione... Sto valutando di restituirle la carineria a modo mio (che peraltro come volume sono anche messo benino...). Sarebbe simpatico vedere come reagisce se mi metto lì a chiacchierare di football o dei miei business davanti alla di lei magione. E perchè reputo inelegante, causa presenza di altri innocenti, intavolare anche eventuali finte telefonate hardcore
  3. Avanspettacolo... Passare davanti alla sua stanza, aprire la porta di scatto e tirarle addosso un gatto (ovviamente vivo, in salute e retribuito per l'opera). Il problema sarebbe quello di introdurre il gatto, ma l'effetto comico... vuoi mettere?
  4. Extrema ratio... Arriva la volta in cui mi vedrò costretto a dirimere serenamente la questione con la diretta interessata. Sto valutando la sediata in faccia. Vediamo.

Oh, che poi (tenere presente che sono ancora in modalità scorretta) mi trovo purtroppo costretto ad ammettere che se la suddetta presenza fosse di gradevole impatto visivo, accetterei qualche compromesso. Ma in onestà, l'immagine su riportata è anche troppo fedele.

Può bastare, credo.

Da adesso, il filtro politically correct è ripristinato.

E devo dire che in questa sede si sta veramente bene :)

giovedì 16 settembre 2010

Tracks

Il viaggio in treno mi ha sempre affascinato. Mi farebbe piacere, anche adesso. Pianificazione day-by-day, una relativa lentezza, quel po' di imprevisto, un piccolo numero di persone conosciute, storie raccontate e finite lì con un arrivederci che non si concretizzerà.

Mi è capitato anche di fare viaggi lunghi in treno, a colpi di venti ore. La fase del viaggio che mi affascina di più è l'avvicinamento alla città. Lo sferragliare degli scambi, il rumore del rotabile. Forse perchè distoglie dalla dimensione ovattata, più o meno confortevole, dello scompartimento e riporta verso terra, verso una bella opera di ingegno umano. Fascino della ferrovia, dei trenini con cui hai giocato, da quelli casalinghi a buon prezzo alle locomotive da esposizione, modellini da sogno che costano quanto una berlina di fascia media.

L'Italia è bella, in treno. Giri a Firenze per lavoro, con la segretaria che mi voleva mandare in aereo (fra Roma e Firenze nemmeno metti tutte le marce, su). Santa Maria Novella, e il rumore di ferraglia. Bologna, passeggiata di una giornata con A, in cui sfidai la sorte e salii sulla torre degli Asinelli prima di laurearmi. Ferraglia. E lì anche una sosta per vedere la stazione e cercare di capire, in silenzio. Un weekend a Pisa, e in una anonima stazione urbana di Roma vedo fermo l'Orient Express!!! Milano: intramuscolo di una giornata, svegliandomi alle tre di mattina per star lì a mezzogiorno, e vedere amici e Superbowl incastrando anche bene il tempo. Stazione Centrale. Ferraglia anche lì. E poi le stazioni nordeuropee. Berlin, Kobenhavn, Hamburg, Stockholm, Amsterdam. E relativi sferragliamenti, che ti dicono di tirar giù lo zaino che sei quasi arrivato.

Il sogno proibito resta la Transiberiana. Un viaggio di giorni in posti così disomogenei tra di loro che sembrerebbe più una macchina del tempo che non un treno.

Ho trovato un surrogato letterario. Un bel capitolo di Tiziano Terzani, I merciai della transiberiana, tratto da "Un indovino mi disse". Terzani viaggiò dall'estremo Oriente all'Europa senza far uso di aerei per una sorta di sfida alla predizione di un indovino. La pioggia di storie e aneddoti è proporzionale alla dilatazione del tempo di viaggio. Partenza da Ulan Bator, dai tramonti lenti e gloriosi, e una immediata disillusione dell'idea romantica...

Quando mi presentai al treno, però, nel mio scompartimento de luxe c'era appena il posto per sedersi. Era tutto occupato da enormi sacche e pacchi, in cima ai quali troneggiava un mongolo corpulento dalle gote rosse, sui trent'anni: il mio nuovo compagno di viaggio.
"Businessman?" gli chiesi, usando la parola che ormai ovunque è sinonimo di prestigio. Con la testa fece un cenno affermativo. Grazie a Dio, scoprimmo che ci potevamo intendere in cinese. L'intero treno era fatto di questi businessmen. Ogni singolo scompartimento era zeppo di sacche e cartoni che strabuzzavano di roba. Anche lo spazio sotto i sedili letto era occupato da fagotti e cartoni; lo stesso valeva per i corridoi e le latrine. In tutto il lunghissimo treno mi sembrò non ci fosse un solo normale viaggiatore con la valigia.

Surrogato per surrogato, è carino anche quello virtuale, fornito da Google. Mosca-Vladivostok. Nel prezzo del biglietto (zero) si può scegliere anche la colonna sonora.



Fra una Russian Radio strappalacrime e il "Rumble of Wheels" ovviamente scelgo la ferraglia. Fanno vedere in sintesi le varie tappe. Un tentativo simpatico.

Ma quello vero resta un bel sogno. Chissà :)






martedì 14 settembre 2010

Letizia Battaglia

Per spiegare chi sia Letizia Battaglia e quale testimonianza immensa ci ha fornito finora con il suo lavoro mi viene un paragone forse un po' scolastico. Quando ci troviamo davanti ad un evento di un certo tipo, gli elementi di giudizio che si formano hanno anche origine dai nostri cinque sensi, dalle percezioni dirette e immediate su quello che è successo. Se ragioniamo su trent'anni di delitti di mafia in Sicilia, Letizia Battaglia è il senso della vista per molti di noi.

Letizia è uno dei due professionisti della fotografia che hanno contribuito a rafforzare ricordi e sensazioni, spesso durissime, nell'immediatezza di un delitto di mafia. L'altro è Natale Gaggioli. Il cronista Saverio Lodato racconta che Gaggioli, arrivando sulla scena di un omicidio, era sempre seguito da un assistente che trasportava una cartolinistica pala di fichi d'india, da porre nei pressi del cadavere coi giusti calcoli di luce. Altrimenti nel continente l'articolo perdeva di appeal. Fa quasi sorridere, sebbene l'osservazione sia estremamente cruda.

Letizia Battaglia è una fotografa bravissima, con un amore viscerale per la sua Sicilia. Molto bello il documentario In un altro paese, in cui guida Alexander Stille attraverso i decenni di cui, suo malgrado, lei è stata testimone privilegiata. L'occhio non comune con cui lei ha percepito quello che aveva intorno non si limita semplicemente allo "shot" sul cadavere ancora caldo e crivellato di colpi. Girando per la rete si vede la sua sensibilità per le persone sul fondo del barile, per coloro ai quali si nega un diritto con poco sforzo, donne con lo sguardo rassegnato e col figlio in braccio, nudi, volti in lacrime. Con una fede integrale nella forza della fotografia in bianco e nero.

Ma l'arte di Letizia, la sua raffinata percezione visiva e il suo gusto per rendere con forza e grazia gli aspetti della sua terra e dei suoi concittadini, ci hanno dato prove contundenti anche quando nel mirino del suo obiettivo non c'era una figura o una sensazione, ma un dato di cronaca, e quello più inesorabile di tutti. La morte.

Letizia ha reso un servizio quasi civico, aiutandoci a capire che cosa siano in grado di fare questi criminali a chi si frappone ai loro disegni. Era il capo dei servizi fotografici del quotidiano L'Ora, vera e propria voce di Palermo. E le sue foto sul giornale del giorno dopo, non potevano indurre a nascondere la testa, come hanno fatto in molti per rimuovere qualcosa che veniva pudicamente visto come un semplice dato ambientale, non come una fenomenologia criminale radicata in ogni settore da cui si può trarre potere e profitto.

Nella foto a fianco, l'unica che mi permetto di riportare, è ritratto il Consigliere Istruttore Cesare Terranova. Uno dei tanti funzionari statali per bene che fra un posto garantito in parlamento e un impegno in prima linea nella sua città non ha avuto il minimo dubbio nel fare un passo avanti. Ucciso, lui e il suo angelo custode, agente Lenin Mancuso.

Letizia Battaglia si è trovata nel tempo a ritrarre troppo spesso questo tipo di scene. Michele Reina, Piersanti Mattarella, tanti corpi senza nome di vittime di vendette.

E poi il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa e la giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro. Il motivo principale per cui quella foto non può essere mostrata è lo scempio, la volontà precisa dei carnefici di cancellare due identità: quella di chi ha avuto il coraggio di combattere e quella di chi ha avuto il coraggio di stargli vicino. Ridotti a due ammassi di carne sforacchiata, l'uno proteso nell'inutile tentativo di proteggere l'altra.

E la resa finale, anche per una come Letizia. L'attentato in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Letizia raccontò di essere arrivata sul posto poco dopo e per la prima volta di essere disorientata per quello che vedeva. Resti umani sparsi senza logica. Una gamba, una testa, un corpo dilaniato.

"Non ho avuto il coraggio di fare nemmeno uno scatto".



giovedì 9 settembre 2010

Stilografiche


Tutte le volte che ne avevo la possibilità, mi piaceva un sacco scrivere con la stilo.
La scrittura con la stilografica è un po' come la guida con il servosterzo, in un certo senso. La sensazione che ci sia meno attrito fra penna e foglio (non se si sta restando a secco di inchiostro). Un invito ad un movimento che per qualcuno può essere rotondo, liquido, se si usa il pennino secondo un certo angolo, per qualcun altro può essere tagliente, rumoroso, se si va di punta. Forse una questione umorale, forse un riflesso caratteriale. Materia da grafologi, evitiamo.

La cosa che mi piaceva di più era una specie di implicita esortazione all'ordine. Imparato dalle suore da bimbo: con la stilo scrivi tutto ordinato! Marginale il fatto che avevi comunque i polpastrelli sempre blu o neri. Blu, per la precisione, perchè sul nero non potevo usare il cancellino. La scrittura ordinata m'è tornata utile all'università. Ogni tanto c'era bisogno di sintetizzare, di schematizzare. Foglio A4 e stilo colorate! Diagrammi di flusso, circuiteria varia, algoritmi, calcolo di integrali, mi piaceva ogni tanto fare le cose tutte colorate e pulitine. Sì, ci mettevo più tempo ma a mio modo riuscivo ad avere un buon metabolismo. Per mettere una cosa in un bel layout ero indotto a ragionarci, a speculare su eventuali passaggi non chiarissimi, a volte a trovare anche una strada tutta mia.

E una delle cose che poi mi intrigava di più era il cambio di colore. Avevo delle normali stilo a cartucce, non la Ferrari delle stilo in foto (una Mont Blanc Meisterstuck...). Vicino casa avevo una cartoleria seria, e i colori disponibili erano blu, nero, marrone, rosso, ocra, verde, viola, fucsia. Periodiche scorte di proiettili cromatici.

E due effetti collaterali divertenti... Il cambio di cartuccia... Ovviamente non mettevo mai due volte di fila lo stesso colore! E ogni refill portava una virata transitoria dal vecchio al nuovo che spesso generava mix con una loro improbabile eleganza. Il secondo, più paranoide, era il bullet count... Quando finiva la cartuccia, tagliavo la coda e conservavo la pallina in apposito contenitore. Per non impazzire ogni volta col conteggio, decisi in breve che era più saggio andare di dieci in dieci. Ho ancora quel barattolino, sopra c'è un pezzetto di scotch con la scritta "733"...

Se cade a terra è un dramma!

mercoledì 8 settembre 2010

Opposti

Alcuni contrappunti della vita reale mi lasciano dubbi veri. Quale figura del quadro di Escher è quella che cammina senza falsi prospettici? Non se ne esce, perchè il "tutte o nessuna" non cambia la sostanza.

Dov'è il nocciolo? Attualità. Disagio. Un disagio talmente importante da meritare quasi due g.

Esempi

L'Apparire. Con inesorabile regolarità, tutti i giorni tutto il giorno sulla rete imperiale giovanilista passa uno spot odioso. Magari il tizio è una innocente comparsa. Ma nel contesto pare uscito fresco da una tavola lombrosiana. Giovanotto con giubbotto in pelle e maglietta, su macchina spider da non meno di 50K, che canticchia. La musica è l'imperitura suoneria che parla male di Lippi dopo i mondiali. Lippi, che aveva vinto i mondiali precedenti, a puro titolo di cronaca. Musica insulsa, parole neurologicamente offensive. E' semplicemente l'industria della circonvenzione di incapace consenziente. Servizio in abbonamento, costo 5 euro settimanali per un po' di ciarpame, traffico WAP escluso. Condizioni di uscita apparentemente lineari, ma ogni tanto qualcuno di questi signori passa per Mi manda Raitre, quando non se la cava con un fax.
Questo indotto fattura qualche miliardo di euro l'anno. Pochi, ma non zero nè uno. Qualche.
Ai potenziali premi Nobel per la fisica che si avvalgono di tali prodezze, a prescindere dai contenuti, vorrei far notare che un telefonino, se proprio non puoi farne a meno, lo personalizzi come vuoi tu in tre minuti a costo zero da internet.

L'Essere. Scuola media, qualche giorno prima dell'inizio dell'anno scolastico. Paesino della Ciociaria, giusto per completezza di informazioni. Signora vestita nel modo più normale del mondo che chiede educatamente di essere ricevuta dalla dirigente scolastica. Sono a pochi metri, le porte sono aperte. La signora è una mamma che chiede un aiuto per acquistare i libri per la figlia. Scuola dell'obbligo. La dirigente dice che può tranquillamente far richiesta dei rimborsi previsti. La mamma dice che non ha di che anticipare. Pugno nello stomaco. Viene confortata, mi piace sottolineare che viene confortata con il tono giusto, senza falsa partecipazione o commiserazione pronta all'uso. Cercheranno di chiedere se sono disponibili i libri per altra via. "Signora, non si preoccupi. Mandi la bimba tranquillamente".

Resta il pugno nello stomaco.

martedì 7 settembre 2010

Tisane

Mi piacciono le tisane.

E' un momento di lentezza, quasi un lusso, ritagliato in un quotidianume talmente mal strutturato da sembrare un acceleratore di particelle fuori controllo.

La tisana va scelta, preparata, seguita, coccolata per un po' di tempo e poi gustata col dovuto rispetto. E' ovviamente una scelta dettata dall'umore. Un tè, un decotto, una camomilla. Come mi sento? Cosa sto chiedendo? Gusto? Tepore? Energia? Spezie? Si può fare tutto. Mi rimorde un po' la coscienza quando abbatto i tempi scaldando l'acqua col microonde. Vabbè, il risultato finale è acqua calda a tot gradi lo stesso, ma parte del rituale è andata, pare più un fast food che un momento da regalarmi. Se però ho la possibilità di farmi un certo tipo di tè, mi piace rispettare alcune regole. Non il tè in bustina, uso il dispenser da mettere nel teapot. Le tazze giuste, il biscottino di accompagno di un certo tipo. E lì a quel punto apprezzo sia la decisione di un nero, che le sfumature di un earl grey. Niente tè verde, un po' troppo modaiolo e poi non è che da grande voglio fare la modella.

Oltre al gusto in sè e al momento di tranquillità, quello che mi piace è l'esplosione cromatica, quando l'acqua comincia a prendere colore e profumo, quando quella sospensione è ancora in una fase instabile. Essendo fuse in un elemento senza colore, le tisane catturano anche un po' l'occhio.
Il rosso deciso dell'ibiscus, il karkadè. Ingiustamente sbertucciato in quanto bevanda dell'impero. A me piace, lo trovo buono e dissetante. Ogni tanto d'estate me ne preparo una bottiglia grande e la lascio in frigo. Con tanti saluti alle bollicine di Atlanta. L'arancio cupo del rooibos, buonissimo concentrato di uno pensa chissà quali spezie, per scoprire poi che si tratta di una umile leguminacea. Gli infusi di frutta, che mi riportano ai tempi in cui studiavo e me li calavo praticamente in vena.

E la radio che stamani ha annunciato che la Twinings verrà stritolata dalla globalizzazione e metterà gli impianti nell'est europeo e in Cina...