giovedì 1 aprile 2010

Kursk

I film con i sottomarini mi hanno sempre attratto. Un mix di mistica del lavoro di squadra, retorica patriottarda (non importa quale patria), trionfo del bene o del male minore unito a bravi attori ed effetti speciali degni. Rivedo volentieri film quali Crimson Tide e K-19, dove le storie mostrano anche dialettiche interne interessanti, un po' meno Caccia a Ottobre Rosso, che è più improbabile come trama. Ma la vicenda del Kursk non è la stessa cosa. Nessun lieto fine dovuto alle esigenze cinematografiche. La tragedia umana maturata in quella vicenda mi ha ispirato solo rispetto, riflessioni e voglia di approfondire cosa era successo e come e perchè fosse stata possibile una gestione dei fatti simile. La storia è abbastanza nota. Putin insediato da poco non vede l'ora di far capire al mondo quanto gli piaccia mostrare i muscoli. Esercitazioni nel mare del Nord, il giorno 12 agosto 2000 il Kursk non arriva al punto di riunione previsto dopo aver lanciato un SOS. Ipotesi confuse, presunte collisioni con un sommergibile fantasma, che avrebbe fatto tanto comodo, due esplosioni peraltro chiaramente avvertite da sismografi a pochi secondi l'una dall'altra. Centodiciotto vite perse, forse con una atroce agonia fatta di buio, di spazi stretti, di aria che andava diventando sempre più velenosa. Di acqua che cominciava ad entrare. L'ostentato rifiuto dei soccorsi non russi. Dal 15 agosto solo silenzio. I parenti delle vittime non possono accontentarsi del silenzio, anche se poi s'è trattato solo di una fatalità. Chi ha lasciato lì un figlio orgoglioso di stare in quel natante, un marito prossimo al congedo che avrebbe continuato a lavorare comprandosi un taxi tutto per lui. Storie spezzate che non sono capace di approfondire. Ma mi sento di evidenziare, ancora una volta, lo schifo che provo quando il potere dà certe prove di sè. Davanti alle famiglie che erano ancora in una atroce incertezza sull'accaduto, gli ufficiali della Marina e Ilya Klebanov (il plenipotenziario, Putin era in vacanza) recitavano il solito rosario stantio "Non abbiamo altro da dire. Ci stiamo lavorando". Rimane impressa l'esplosione di una madre, Nadezhda Tylik, che parlando letteralmente con il suo sangue inchiodava quei visi di marmo anonimi alla loro sciatteria di ufficiali e di uomini, alle loro responsabilità davanti a chi era chiuso in quello scafo che fino al giorno prima era l'orgoglio della nazione e adesso semplicemente un imbarazzo da mettere a tacere. "Dovreste strapparvi i gradi dall'uniforme davanti a noi". Ma il potere non prevede variazioni sul clichet. Un provvidenziale angelo biondo viene inviato ad iniettare un sedativo a chi si è permessa di essere se stessa in un luogo e in un momento in cui non era previsto. Poi ancora giorni di silenzio, con il potere ufficiale che ha ammesso la perdita dell'equipaggio con un ritardo a metà fra il beffardo e l'oltraggioso. Il recupero del relitto, quasi epico, eseguito da chi ragiona con numeri e coraggio, non con la retorica del potere. E il silenzio di chi rimane, di chi ogni tanto va a portare un fiore davanti a una foto, senza alcuna speranza che lo stato a cui il loro caro ha dato la vita si ricordi di loro.

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