giovedì 22 marzo 2012

Once Brothers

"The Balkans produce more history than they can consume"
(Sir Winston Churchill)


La serie 30 for 30 di Espn è una straordinaria raccolta di documentari di storie di sportivi. Spesso esaltanti come la vittoria e la vita, spesso tragiche come la sconfitta e la morte. 

Once Brothers racconta la storia di due campioni veri, Vlade Divac e Drazen Petrovic. 
Vlade e Petro erano i due talenti più noti dell'irripetibile ciclo del basket slavo a cavallo degli anni 80 e 90. La Jugoslavia era ancora tale, e schierava sul parquet un quintetto di leggende: Zarko Paspalj e Vlade Divac erano serbi. Toni Kukoc, Drazen Petrovic e Dino Radja erano croati. Divac pareva uno scherzo della natura: un centro di 2.16 che palleggiava, passava, tirava e si muoveva con una leggerezza e una tecnica impensabili per una struttura come la sua. Petrovic? Petrovic era un mostro, un'arma letale che raramente scendeva sotto i 40 punti a partita, che distribuiva passaggi e giocate con una velocità mai vista prima in Europa. Il Mozart del basket.

E la loro storia sportiva procede di pari passo. Vincono tantissimo, per inesperienza perdono solo contro la Russia di Sabonis alle Olimpiadi del 1988. Fanno sudare maledettamente i leggendari Boston Celtics di Larry Bird in una amichevole. Ma sono pronti al grande passo. E infatti, prima Petro e poi Vlade, sono i primi giocatori slavi ad essere ingaggiati nella National Basketball Association. I due ex compagni di stanza nel centro sportivo di Rogla si ritrovano catapultati in un altro mondo, nel paese delle opportunità.

Le cose all'inizio vanno in maniera differente. 
Vlade ha un impatto immediato nei Lakers, che avevano da poco perso Abdul Jabbar. Anche se non parla la lingua, con gente come Magic Johnson e James Worthy si trova a occhi chiusi. Si impone subito come una stella di valore assoluto, diventa un beniamino dei media, sempre sorridente e spettinato. Vive il suo sogno alla grande.
Petro non ingrana a Portland. Ha davanti due guardie intoccabili: Terry Porter, una macchina di assist, un amministratore di gioco impeccabile, e l'immenso Clyde the Glide Drexler, forse in quegli anni secondo solo a Magic Johnson e a Michael Jordan. Petro gioca pochi minuti a partita, Portland non è Los Angeles, spesso chiama Vlade solo per dirgli che ha fatto uno o due canestri, lui che in Europa raramente scendeva sotto i quaranta punti. I due si sentono, si parlano prima delle partite, continuano ad essere un riferimento di vita l'uno per l'altro.

Nel frattempo in Jugoslavia sta succedendo qualcosa. Il paese accusa le prime istanze separatiste delle varie zone. E' un mondo eterogeneo per dialetti, religioni, politica. E le cose stavano per evolvere in maniera tragica.

Nel 1990 la Jugoslavia non è più propriamente una nazionale di basket. Pare più un gruppo di amici che giocano da dio e riescono a fregarsene delle diversità e dell'etnia, entro certi limiti. E come Jugoslavia vincono il loro mondiale di basket, in Argentina. Nei momenti di gioia e di confusione dopo la vittoria, il classico idiota affetto da smanie di protagonismo entra in campo e vuole imporre a Divac di sventolare la bandiera croata. Divac lo respinge malamente, buttando via la bandiera ("Lo avrei fatto anche con la bandiera serba. Noi eravamo la Jugoslavia") e torna a festeggiare. Quel gesto, in un momento purtroppo delicato, venne strumentalizzato in ogni modo dai media. Avevano il loro mostro, il serbo arricchito che disprezza i croati. E fu l'inizio della fine di una amicizia. Petrovic nei giorni seguenti non commentò. Quando si sentivano al telefono le cose non erano più le stesse, i saluti prima degli incontri erano un pro forma. "Una amicizia costruita in anni venne distrutta in un attimo", dice Vlade con l'amarezza negli occhi.

Nel frattempo Petrovic cambia aria, e trova lo spazio che merita ai New Jersey Nets. E anche l'America assiste alle esibizioni del Mozart del parquet. Titolare indiscusso, macchina da punti ritrovata, è il vero Petrovic sempre all'attacco, che non ha paura di nessuno, che mette 40 punti in faccia a Michael Jordan. Rinasce, ritrova tutto se stesso, ma non il suo amico Vlade. Parlano solo della situazione interna, della guerra, di chi è rimasto lì. Non riescono più a far fronte fra loro, non è più come prima.

Il tutto culmina negli europei del 1991, vinti dalla Serbia trascinata da Divac e Paspalj, con la Croazia che ostentatamente abbandona il podio della premiazione, voltando le spalle ai loro ex compagni, ex fratelli.

E si prosegue in quel modo. Canestri e silenzio. Nel 1992 gli USA, stanchi di perdere alle Olimpiadi, mandano a Barcellona la prima, leggendaria versione del Dream Team. La Croazia perde in finale, nonostante la prova mostruosa di Petrovic. La Serbia è espulsa e non gioca. ll basket, ovviamente, non risolve guerre e politica.

Finchè in una piovosa mattina di agosto del 1993 l'auto guidata dalla ragazza di Drazen Petrovic si scontra con un camion, in Germania. Drazen dormiva, stanco della partita della sera prima. Centomila persone a Zagabria a fianco di una bara bianca, Radja e Kukoc in lacrime. Vlade sente la notizia da un tg, è sconvolto, corre a dirlo alla moglie perchè non può avere più legami con quel mondo. E non avrà più occasione per chiarirsi con chi, per un lungo e irripetibile periodo, è stato amico e fratello.

Passa il tempo, le cose si assestano. Vlade conclude una lunga e onoratissima carriera nella NBA. E ritorna nel suo paese. E' un uomo, prima che un serbo. Va in Croazia, a trovare la famiglia di Drazen. La gente per strada lo guarda, chi con ammirazione (è pur sempre una leggenda vivente), chi con il solito ottuso idiota disprezzo ("Cetnik"). Parla con la madre e il fratello di Drazen, regala loro un po' di foto dei bei tempi, quando erano fratelli e stavano nella stessa stanza.

E il momento più bello e duro di tutto il documentario è l'ultimo minuto, quando Vlade va al cimitero, dà un bacio alla lapide, e lascia in regalo a Drazen la foto. La loro foto. Erano fratelli.



Once brothers