lunedì 5 dicembre 2011

Negozietti

Anonimo commerciale...
La tortura annuale dello shopping imposto si sta avvicinando, inesorabile. Fatico a tollerare le imposizioni, e questa lo è. Tiro fuori dal discorso quello che riguarda la felicità dei più piccoli, forse una delle ultime zone franche su cui ci si possa trovare d'accordo. Certo, ci sarebbe anche da tenere in considerazione la fascia meno protetta (ma proprio a livello planetario). Tutta la mia ammirazione a chi lo fa, ma non è questo il discorso.

Negli ultimi anni la geografia dello shopping è stata radicalmente stravolta dalla nascita dei centri commerciali. Enormi, comodi, ci si trova di tutto, ogni tanto le offerte sono veramente interessanti, la grande distribuzione permette tenere prezzi alla clientela più vantaggiosi lavorando sui volumi. Bla bla bla, tutto noto e arcinoto.

L'effetto collaterale più triste di questa fioritura è stata l'inevitabile caduta del commercio al dettaglio. Il negozietto, magari in zona più centrale, deve pagare un affitto più esoso rispetto al centro commerciale. Non sempre può garantire un parcheggio gratuito enorme, il suo assortimento è di un certo tipo e non è un mostro omnicomprensivo, il prezzo a volte non è competitivo. Questo alla fine ha comportato un numero rilevante di chiusure e fallimenti di oneste attività commerciali. I locali vengono rilevati o da chi ha un franchising alle spalle, o dai punti per scommesse (detestabili) o dalle stramaledette onnipresenti agenzie immobiliari.

E' un ovvio risultato della globalizzazione all'italiana. Magari nei pochi negozi seri che ancora esistono ci può essere il valore aggiunto della competenza del venditore. Prendiamo una enoteca che si rispetti. Se sta lì dai suoi trent'anni magari è il business di famiglia, c'è chi ha investito vita e averi in una cultura, nel voler offrire un servizio in un certo modo. Mi saprà consigliare una bottiglia di un certo tipo da accompagnare ad un certo pasto. Può starci che in un supermercato di un centro commerciale trovo la stessa bottiglia al dieci per cento in meno, ma poichè nessuno ha saputo guidarmi "verso di lei", potrei pure arrivare a pensare che per essere una bottiglia che vendono a un supermercato è anche cara, no?

Avere a disposizione una professionalità di un certo tipo ora non va più di moda. A nessuno interessa sapere che magari la lavorazione di un capo di abbigliamento di sartoria richiede pazienza e perizia. Come pure abbinare in un certo modo i sapori dei cibi. Scegliere un libro quando si ha una idea vaga. Trovare quel disco lì di quel cantante lì che nemmeno su Google (caso limite: dice il saggio che se non lo trovi su Google non esiste...). Avere qualche cenno su ingredienti e lavorazione di quella torta che ti ha fatto impazzire...  Ovvio, la grande distribuzione su questo non può non avere un approccio forzatamente impersonale, anche i negozi standard immersi in quella logica attenuano un po' la dimensione relazionale. Essendoci più passaggio c'è un po' meno di attenzione verso il singolo cliente.

E non parliamo delle particolarità gastronomiche. L'esempio su cui ho un nervo scoperto è la bufala, il modo più perfetto che uomo e natura hanno trovato per assemblare i grassi. Al supermercato sono tutte maledettamente uguali e tristi. Stesso saporino anonimo, stessa mancanza di personalità. Magari il negozietto ha il suo pusher proveniente dall'hinterland beneventano. Magari meglio fare una domanda in meno che una in più. Ma tra la bufala massificata (per l'amor di Dio con tutte le sue certificazioni ben esposte) e quella "zitto e magna", il confronto è impietoso nella quasi totalità dei casi. Mi viene in mente Saviano, quando racconta del ragazzo di sistema che porta una cassetta di mozzarelle in Russia, nelle mani personali dell'ex colonnello Kalashnikov (sì, quello dell'AK 47). Se solo si fosse azzardato a portare quelle belle vaschette in plastica da supermercato con tanto di bufala sorridente sulla confezione, il colonnello avrebbe potuto anche rispolverare qualche vecchio cimelio che teneva a casa...

Alla fine la mappa dei negozi in un quartiere medio è ormai tracciabile con monotona regolarità. Supermercato in franchising, tabaccheria, estetista, negozio cinese, farmacia, negozio cinese, alimentari di nicchia soprannominato Bulgari, alimentari sfigato, frutteria cingalese, gelateria onesta, negozio cinese, tabaccheria, negozio cinese, noleggio film, bottiglieria, negozio cinese. Più o meno siamo messi così.
Tanto i centri commerciali grossi fra dentro e fuori il raccordo ormai sono circa una decina, belli luminosi e raggiungibili.

Il negozio cinese mi intristisce particolarmente. Vorrebbe essere una risposta adhocratica ad ogni necessità e ad ogni contingenza. Inevitabilmente assume l'aria un po' sciatta dell'emporietto di secondo ordine. Sei sotto natale? Deborda di decori per alberi, presepi a buon mercato, regaleria di fascia bassa. Mah. Nello stesso negozio ci trovi scarpe, colori, quaderni, ombrelli, utensileria. Tutto in un suo ordine apparente, tutto però confuso, in una sorta di irritante ossessione per cui c'è la pretesa di trovare qualsiasi cosa serva. 

Non mi piace nemmeno un po' questo modo di presentare le cose, ma vista la proliferazione un po' pervasiva di questo modello di business, forse ci sarebbe da valutare seriamente cosa può esserci dietro.