giovedì 20 gennaio 2011

Desolazione postindustriale

Sono passato in una sede aziendale dove dieci anni fa mi era capitato di lavorare continuativamente per circa un anno.

Per il tipo di rotazione intrinseca al settore, non è detto che riesci a ritrovare le stesse persone nello stesso posto, ma ci sta che trovi lì persone che avevi conosciuto in altre sedi, colleghi con cui avevi interagito. A volte ci si riconosce e fa anche piacere. 

Poi ci sono le sale apparati, forse un po' il mio ambiente naturale. Il posto in cui so che riesco a fare cose tangibili, mettendo un valore aggiunto quando possibile. Posti in cui può essere necessario saper risolvere problemi, capire le tecnologie e le loro evoluzioni. Contesti in cui non si parla. Si agisce. E il momento in cui la sintesi rivela la bontà dell'analisi mi piace, mi ricorda un modo qualificante di intendere il lavoro. Ogni lavoro.

Non arrivo mai a identificare la vita con il lavoro. Nella vita ovviamente c'è altro. Figli, famiglia, amore, persone, storie, viaggi. Il lavoro però strutturalmente è un punto che occupa una grossa parte della nostra vita attiva. Ed è bene quindi averne un concetto alto. L'idea che nonostante tutto voglio continuare ad avere del lavoro è quella di un punto in cui mi è richiesto di dare un contributo, a volte di fare un passo avanti e dire "posso provare a farlo io". E' condividere con gli altri, delegare cose che ormai sappiamo fare e andare alla ricerca di cose nuove da studiare, capire, suonare sulla nostra partitura, aggiustare con la nostra borsa dei ferri. Può essere anche qualcosa che "vedi funzionare davvero". Qualcosa che renda gradevole dire che ci ho messo su mani e testa.

Questa visione del lavoro è ormai tragicamente anacronistica. Oggi comanda la sola logica del fare più soldi in meno tempo possibile. La qualità delle realizzazioni, di qualsiasi tipo, è marginale. La soddisfazione di chi le ha fatte è ormai meno che marginale. Si tende ad uniformare qualsiasi cosa all'interno di una diade magica: il processo e il protocollo. Il processo prevede questo, non si può fare altrimenti. Questo non rientra nel protocollo, non si può fare altrimenti.

La vittoria schiacciante e assodata di queste modalità lavorative è quella che ha creato mostri e voragini nelle civiltà industriali. Più spesso di quanto non appaia ad un primo esame. Processi fortemente integrati e protocolli omnicomprensivi portano un numero sempre maggiore di attività a poter essere eseguite con un livello risibile di specializzazioni individuali. 

Riprendo un esempio che è un mio vecchio pallino: guidare una macchina.
Molti di noi possono farlo, ognuno con i propri risultati, tenendo per buoni alcuni vincoli quali la sicurezza e i tempi di percorrenza. Le punte di eccellenza in questa attività evidentemente sono i Senna, gli Schumacher, gli Alonso e gli Hamilton: ogni generazione ne può contare pochini. L'eccellenza richiede tempo, investimenti, perseveranza, voglia di insistere nel maturare la propria curva di esperienza, assumendosi oneri e onori.

Processo e protocollo scompongono l'attività. Ma questo non sarebbe neanche un errore, se le cose venissero fatte cum grano salis.

Nella pur remota ipotesi che tu sia Fernando Alonso, scordati di stare al volante a modo tuo. Anzi, scordati proprio di stare al volante perchè non sia mai ti venga in mente che non si possa fare a meno di te con qualche impatto sull'inevitabile trionfo finale. La macchina per definizione è già avviata. Non si capisce chi stia guidando. Non sei più tu quello che cambia le marce. Anche l'attività di cambio marcia è troppo complessa. Si definisce una funzione intermedia, che è quella degli spingitori di frizione. Conseguentemente avranno un livello di specializzazione sempre più basso, sempre più insulso per un mercato professionale vero. L'attività viene svolta più lentamente, coinvolgendo anche più persone di quante non ne siano forse necessarie. Il prossimo passo quindi va delegato ai mettitori di marcia. E così via.

Nel tempo questo abbattimento delle skill, che reputo attuato consapevolmente da chi crede che un professionista bravo sia rimpiazzabile da due medi, ha partorito una serie di mostri. Meno qualificante è il lavoro, minori saranno pretese contrattuali e negoziali di quelle figure. Minore è il livello di know how richiesto, più semplice sarà precarizzare, flessibilizzare e alla fine delocalizzare.

Il tutto in un contesto-paese ormai socialmente bloccato, dove non ci sono dinamiche lavorative vere, dove la mobilità interclasse è ormai inesistente. Aumenta la disoccupazione, la sfiducia nella ricerca di un posto. 
Ma non se ne parla perchè non fa audience.

Ci pensavo passeggiando in questi giorni in vari posti, che ormai vedo come insiemi di spazi uso ufficio liberi, troppo liberi
Con tristezza.

La giraffa

Una pillola di Stefano Benni.
Per un animale che mi sta troppo simpatico, per i suoi modi gentili e per l'andatura dinoccolata.
E non è ipocondriaca, checchè ne pensi Melman :)

La giraffa ha il cuore
lontano dai pensieri
Si è innamorata ieri
e ancora non lo sa

(Stefano Benni, trovata sulla raccolta meravigliosa
Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano)

martedì 11 gennaio 2011

La coppia ikeale

Non accetto il paragone che Ikea sta all'arredamento come McDonald sta alla ristorazione. Ingeneroso, semplicemente perchè il livello di qualità dei prodotti commercializzati nei due casi mi pare un po' diverso. Cioè: nutrirsi solo con cibo da fast food non mi pare un'idea geniale (in poco tempo il colesterolo si misura con la stecca dell'olio), arredare una intera casa con mobilio autoassemblato e in quella fascia di qualità/prezzo può starci. Con tutta la diversità dei due contesti, ovvio. Il paragone è solo indotto dai volumi ingenti di business dei due marchi.

Pregi e difetti, sia chiaro. Il design si paga, nessuno regala nulla. Se vanno sostenuti costi extra quali trasporto o altre necessità accessorie diventa difficile parlare di prezzi bassi. 

E ogni tanto ci si ritrova in mano con una inquietante coppia vite-bullone in apparente soprannumero (il foglio istruzioni dice dodici, e se le conti sono dodici, non ci sono santi...) proprio quando l'orgasmo bricolistico assemblativo sembrerebbe trionfalmente concluso.

Ma quello che mi interessava notare non riguarda tanto i prodotti che si trovano lì, per la inevitabile soggettività dei giudizi, quanto alcuni pattern ricorrenti nei colossali magazzini gialloblu. Una cosa che adoro di quel posto sono i nomi degli articoli in vendita. Quelli scritti di seguito sono tutti inventati ma verosimili. Tutti tranne uno.

Un passaggio da Ikea, non nascondiamoci dietro un dito, è un indicatore quasi matematico dello stato di salute di una coppia. E' il posto dove incrocia chi vuole mettere su casa in un certo modo o con un certo budget, o chi vuole andare lì anche solo per osservare qualche soluzione o qualche idea. Io mi limito spesso ad osservare gli altri, appunto.

Nei giorni di punta, il lato maschile della coppia arriva già abbastanza provato dal fatto che solo per parcheggiare ci stanno anche code dell'ordine dei quaranta minuti (tipo bollino nero al casello di Melegnano). La cosa all'interno è proporzionale, chiaramente.
Quando passando fra i divani l'esemplare maschile per caso cade sfinito su Svatorflat, la dolce metà lo redarguisce: "Vabbene che i rivestimenti cambiano, ma dopo aver visto Cramptifor io su Svatorflat nemmeno ci poggio il bucato". E lui ossequioso si rialza. L'idea mistica della coppia di Peynet vacilla appena in quel limbo tra il self service dell'area mobili e le casse, dove lui fa notare che per una confezione di asciugamani Trikkesat (sebbene policromi) forse non ha molto senso buttare tre ore di tempo.

Altro momento catartico è il punto gastronomico. Qui, tronfio della superiorità tricolore, capisco in effetti che lui sogni una carbonara fumante e declini con modi appena più pronunciati un assaggio di Kuntrift dall'aria stantia, qualsiasi cosa sia.

E le coppie si mettono alla prova così, giorno dopo giorno, chaise longue dopo chaise longue, poltrona dopo poltrona, non se ne esce. 

Si parte dal rivestimento del divano, si prosegue con lampade che sono più da museo di design che da abitazione media e si finisce più o meno come i due che ho visto venerdì scorso, con lei che guardandolo netto negli occhi, coram populo lo ha apostrofato come il letto a castello in figura. 
Almeno m'è parso di capire.

lunedì 10 gennaio 2011

Pane e tulipani...

Primo gennaio 2011. Volo KLM da Amsterdam Schiphol verso Roma Fiumicino, ritorno dalla vacanzina in Danimarca. C'è sempre un po' di gusto della novità andando con i bimbi in aereo.
Poi Schiphol è un bellissimo aereoporto se uno deve sostare qualche ora, la KLM è una compagnia notevole, tutto molto pulito e puntuale, nessun imprevisto.

Per ora.

Essendo il volo pienotto, noi eravamo nell'ultima linea di poltrone del 737. Rumore dei motori molto presente, traffico di chi va in bagno, altre cose che però non sono riuscite a distrarmi da due dati fondamentali...

Il primo: un tramonto sopra le nuvole dai colori quasi violenti, una linea rossa che si stagliava tra due coperte azzurre a sfumature diverse, sotto poteva esserci la Francia, più che la Germania. Bello davvero. Non è male ogni tanto abbracciare con un solo sguardo migliaia di chilometri di vuoto, immaginarsi il freddo e il silenzio. E farlo notare ai propri figli, che non avevano ancora avuto modo di vedere un tramonto sopra le nuvole.

Il secondo, molto più terreno.
In un volo in economy che dura due ore e poco non è detto che siano passati film o documentari o altro. Sui monitor LCD scorrevano ciclicamente le informazioni sul volo. Nell'ordine:
  • tulipani bianchi e rossi con logo della compagnia
  • schermata con tempi dal decollo e per l'atterraggio, temperatura esterna
  • schermata con velocità di crociera in miglia orarie, quota espressa in piedi 
  • schermata con velocità di crociera in chilometri orari, quota espressa in metri
  • mappa con avanzamento del velivolo così come rilevato dal GPS
  • tulipani bianchi e rossi col logo della compagnia
  • ....
Può starci un po' come curiosità personale. Voli a undicimila metri, fuori ci sono -69 gradi, arrivi fra tot, stai andando a 788 chilometri orari, sei fra la città X e la città Y. Come curiosità personale, appunto. E per qualche minuto.
Ma qualche fila davanti a me trovavasi uno strano individuo, età poco definibile ma sopra gli "anta", che ha passato regolarmente tutto il volo a fotografarsi il sullodato display. Tra l'altro in maniera anche plateale, tirando su le braccia con la fotocamera per posizionarsi proprio di fronte al suo nuovo totem. Peraltro tra il clic e il relativo scatto, come succede in parecchi casi, qualche istante di pausa c'era. Perchè per le foto digitali non paghi sviluppo e stampa, altrimenti ti volevo a cacciar soldi per decine di tulipani bianchi e rossi.

Ho speso anche del tempo per individuare qualche opzione sul senso della vita secondo lui. Ne sono rimaste due. La prima è deprimente. Fatico a immaginare la socialità del tipo. Se le tue impressioni di viaggio sono queste, tempo due mesi tu non hai più amici. Se chiami qualcuno e gli dici "guarda che figata il capodanno ad Amsterdam" e lo ubriachi di tulipani, il problema esiste. Immagino poi "Ah qui eravamo sopra Sklapfaborg. Guarda qui! Undicimila metri d'altezza. Ehi, farà freddo a -64 gradi?". E in aereo con la coniuge avevamo notato la cosa, che ci ricordava l'unica coppia di italiani che incontrammo in un resort messicano durante la nostra luna di miele, intenti a fotografare con dovizia di dettagli i tetti in paglia dei locali di quel posto paradisiaco. Contenti loro.
Opzione due, appena più inquietante. Terrorista che esegue accurata pianificazione. Volo puntuale, parte qui arriva qui passa qui sopra. Ora X siamo qui, ora X+DeltaX siamo qua. E quando rientra alla base della sua Spectre personale, mi figuro il capo che gli dice "Coglione, hai fotografato solo i tulipani!"
Una prece

mercoledì 5 gennaio 2011

Lalandia!


Come direbbe Giulio, Danimarca est omnis divisa in partes duae, quarum unam insulam esse, utramque peninsulam vere gelidam.

L'isola è Seeland, dove sorge Copenhagen con incantevole affaccio sulle coste svedesi. La capitale è una bella metropoli nordica, con un ragionevole numero di attrazioni magari non eccezionali ma ben valorizzate. Parchi, verde, luoghi di aggregazione, vita da capitale. Come racconta L, ormai vaccinato rispetto alla danish way of life, i capitolini li riconosci da un fastidioso tono cantilenante con cui affermerebbero la loro metropolitanità rispetto al resto del paese. Detta da profano, se sentite parlare due danesi in danese, sembra che si stiano raccontando i codici fiscali ma con accenti di vita vissuta. Respect.

Nella penisola dello Jutland le città sono più piccole, non ci sono metropoli. Ad essere netti, l'unica città-città è Arhus. Carina, ordinata, nulla più. Anni fa si riconosceva a naso, ma poi la Ceres ha delocalizzato la produzione in Polonia, e l'impatto sulla regione c'è stato eccome. Lo Jutland è una piana che parte dal confine tedesco e termina a nord con Skagen e il suo odore di pesce affumicato, talmente environmental che alla fine non dà nemmeno troppo fastidio (ok, finestre chiuse).

I luoghi per la socialità nei posti piccoli evidentemente non sono così numerosi. Ogni sorta di hub in cui convogli le persone, anche per necessità strutturali, va sfruttato ragionevolmente. Quindi le stazioni ferroviarie, anche piccoline, hanno il loro centro commerciale incluso. Mi dice L che la cosa con cui non farà mai pace è che un momento di family life danese che ormai sta diventando tradizione è il pranzo domenicale. Il McPranzo. Triste, 'sta cosa.

Tuttavia, da lì a pensare che muoiono di noia ce ne corre davvero. Intanto perchè i modi di utilizzare tempi e luoghi sono soggettivi e non sta a me tranciare giudizi. In secondo luogo, la natura ha fatto il suo. Posti gradevolissimi, inverni suggestivi, estati miti e verdissime. Parchi, campeggi, bei posti davvero.

Dove non è arrivata la natura, l'uomo un po' di cose ce le ha messe. Il prodotto nazionale danese (tolti i colossi della birra) è il Lego! I mitici mattoncini colorati, ormai sempre più complessi, con cui molti di noi hanno speso tempo in infanzia (ahem... non solo...). 
Vicino Billund sorge il parco di Legoland. Qualcosa di bello. Mount Rushmore, il mitico busto di Toro Seduto alto 5 metri, stazioni con treni funzionanti, l'aeroporto, le riproduzioni di città e monumenti, personaggi di film. Proprio bello, anche gli spazi liberi con cui mettersi alla prova con i leggendari blocchetti colorati.
Piccolo problema... Legoland è praticamente tutta all'aperto, quindi chiude a metà autunno per riaprire dopo la neve.

Nella stessa zona, per precisa volontà di mettere il naso fuori di casa anche d'inverno, hanno costruito un bell'aquapark, dal nome rotondeggiante di Lalandia Aquadome. E ci siamo stati!
Discutibile il cielo artificiale con sole e nuvole quando si entra. Negozi, punti di ristoro, giochi per bambini, tutto questo prima di varcare i tornelli e di andare a cambiarsi e a mettersi beatamente in costume.

All'interno del Dome ci si diverte davvero. Piscine di vari tipi: per bimbi, per bimbi-bimbi, con le onde, all'interno di una grotta (appositamente edificata, ovvio). Scivoli, saune, idromassaggi, giochi. E il quadrifoglio. Il quadrifoglio è un gommone a forma quadrifogliare (chi lo avrebbe mai detto...) con buchi per incastrare la zona deretana e maniglioni da gommone per reggersi. Perchè dopo un discreto numero di scale, il quadrifoglio va in acqua per una quarantina di secondi da vertigine! Entra nel tunnel curvette, discesina, curvette e.... strapiombo! Una specie di montagne russe in acqua,  si viene scaraventati in un indefinito semicircolare dove a velocità notevole riusciamo in breve a smarrire il concetto di orizzonte, a velocità notevole e fra luci verdi e blu, prima di venire risputati, shakerati e contenti, nel condotto di uscita!

Gran bella giornata, alla fine distrutti sia grandi che piccoli. Il ritorno alla realtà è all'uscita, quei bei trentacinque gradi di differenza fra dentro e fuori :)

martedì 4 gennaio 2011

Inverni nordici


Siamo reduci da una bella vacanza natalizia. Tante novità, i bimbi per la prima volta in aereo, per la prima volta fuori dall'Italia. Una meta un po' anticonvenzionale per le vacanze natalizie, pensavo un po' ironico vedendo ai check-in le solite code per la solita Sharm (nulla contro, ma ormai pare la definizione da vocabolario del turismo di massa...).

Una bellissima settimana danese, sullo Jutland, nelle vicinanze di Arhus. Copenhagen sta là sul suo isolotto, noi siamo stati in zone frequentate in pratica solo da locali. Ospitati, mi viene da dire coccolati da L, inossidabile amico di una vita che abita in un posto un po' decentrato, con relativi pregi e difetti. I pregi sono ovviamente cose che ognuno di noi, costretto in una vita cittadina, si può tranquillamente scordare. Spostamenti facilitati dal fatto che in Danimarca il traffico privato è disincentivato (anzi, proprio penalizzato), aria pulita, quel bel freddo secco che ti fa sentire bene anche a -9 gradi.

Un silenzio ovattato, che avevo quasi scordato. Il primo impatto è stato proprio all'arrivo in aeroporto. Dovendo cambiare volo, c'è modo di fare un confronto fra Amsterdam, aeroporto enorme, trafficato, molto ben organizzato, rumori e luci anche con la neve intorno... e l'arrivo a Billund: vuoi per il posto piccolo (unica attrazione Legoland, anche chiusa d'inverno), vuoi per l'ora tarda, vuoi per la robusta nevicata che ci ha accolto, ma l'unico indizio di avvicinamento all'aeroporto era solo la depressurizzazione. Non una luce, non un abitato. Nulla. Neve e silenzio, che a volte non dispiace neppure.

Non troppa gente (non è un posto morto, è solo un po' fuori mano). La possibilità di apprezzare una specie di "natura metropolitana" diversa, il rumore dei passi attutito, i laghetti ghiacciati che si trasformano nell'equivalente dei parchi giochi delle città, con le discese per le slitte, la barca incagliata, bambini che giocano, le anatre al centro del lago. Ok, può non essere il massimo se lo si considera in pianta stabile, ma come variazione sul tema ci stava proprio tutta. 

E ci è piaciuta tantissimo!