martedì 12 luglio 2011

Like Milàn (Milano me piace)

Piazza Cinque Giornate
Non so dare una risposta razionale, ma Milano è il tipo di città che mi mette completamente a mio agio. Anche se non è la mia città, che è un po' più a sud, è un po' più grande ed è un po' più Roma, ma quando vado a Milano di solito c'è sempre un dettaglio che mi resta impresso e me la fa ricordare positivamente. Alla faccia di stereotipi e luoghi comuni, chiaro.

Ieri ho dovuto fare un blitz lavorativo intensissimo per vedere cose in posti diversi. E per un incastro di regole interne, per la prima volta ho avuto la necessità di muovermi a Milano in auto da solo. San Tommaso Doppio dei Navigatori obiettivamente è stato inappuntabile. La voce della signorina era perentoria."Ndo vai, alla rotonda a destra, occhio all'autovelox, non guidare come a casa tua che sei ospite, ecc ecc". Tant'è che, arrivato a Linate presto presto, sono riuscito a incastrare nella giornata un pranzo con una amica con annessa chiacchierata nel ristorante (poichè il poco tempo e soprattutto i quaranta gradi scoraggiavano ogni idea di passeggiatina digestiva). E dopo la seconda tappa lavorativa, sulla strada del ritorno, sono riuscito anche a passare a salutare G, amico come pochi. E ho visto un bellissimo esempio di edilizia urbana a misura d'uomo risalente intorno agli anni Sessanta. Gestione intelligente dell'energia, ambienti silenziosissimi con un bel po' di verde e di attenzione verso gli spazi e le strutture per i bambini, molto carino. A suo modo m'è parsa una reinterpretazione delle magnifiche case dei lotti della Garbatella a Roma, fatte le dovute proporzioni.

E appunto, grazie alla presenza del navigatore, mi sono calato in una città con ritmi e tempi diversi, quasi da turista anche se non lo ero, confidente nel fatto che tanto, pure impegnandomi, non potevo sbagliare strada (ahem, arrivate fino in fondo, va...). Guidare per il centro, Piazza delle Cinque Giornate, Corso 22 Marzo. Tutte strade con le loro regolarità, i loro colori, le loro geometrie. Mi ci sentivo bene in mezzo. Traffico ma non troppo.

Certo, qualche complicazione a questo quadretto idilliaco doveva pure esserci. Prima di riandare in aeroporto, passo a rifornire la vettura come da regolamento. Risalendo, vedo che il mio posto era occupato da una temutissima zanzara insubre che stazzava fra il chilo e il chilo e cento, e stiracchiava minacciosa i flap pronta al decollo. Forma aerodinamica, assetto da gara, quasi incurvata. A suo modo bella da vedere.
Le ho aperto il finestrino e le ho urbanamente favorito l'uscita. Ma gli è la natura, direbbe l'avvocato di Johnny Stecchino... Dove viceversa non gli è la natura, ma l'uomo, è in quello che mi è successo nel movimentato finale di giornata... Prendo il navigatore e imposto "Linate Aeroporto". Wow. Vai, destra, sinistra, rotonda, qui quo qua, sei arrivato.
Arrivato dove
Il congegno (peraltro promosso a pieni voti) aveva preso un po' troppo alla lettera la mia indicazione, e per lui la destinazione era il retro di Linate, proprio le piste di decollo e atterraggio degli aerei. Con il tempo che cominciava a non essere più alleato, mi sono vinto un giro nel traffico pomeridiano di Peschiera Borromeo, ameno comune a sud-est della metropoli, wikicontabilizzato a poco più di ventiquattromila anime,  come dire la curva Sud e un pezzetto di tribuna Tevere. Ma tutti motorizzati, e tutti su quella direttrice. 

Arrivo al parcheggio coi secondi contati, e sbrigo le mie pratiche con la signorina del noleggio che con calma veramente buddista mi congeda dopo le dovute formalità. Parto di corsa (si dice per convenzione) verso le partenze. Mi tocca pure la sfilatio della cinta dei pantaloni, cosa che non m'era capitata all'andata. Arrivo trafelatissimo e chiamato dall'altoparlante, che credo abbia sbagliato il cognome per disprezzo. Ma è andata, e continuo ad avere una bella idea di questa città e dei suoi abitanti.
Non ho potuto onorare la promessa che avevo fatto a me stesso... "Il primo che per strada mi suona usando esattamente la frase 'scendi dal pero', scendo e lo gonfio come una zampogna". Meglio così :)



giovedì 7 luglio 2011

Inti Illimani

Il primo concerto dal vivo a cui ho assistito è stato quello degli Inti Illimani al Teatro Tenda, vicino allo stadio. Non mi ricordo troppo le date, magari fra il 1975 e il 1977, boh.

Bambino tipico degli anni Settanta, sotto molti aspetti. Genitori da poco separati, il mio impagabile zio metalmeccanico con barba lunga ed eschimo che faceva i turni di notte in fabbrica e mi portava in Curva Sud la domenica, con il saccone della spazzatura anti-pioggia e i panini con la fettina.

A quel concerto andai, appunto, con mia mamma e mio zio. Fumo di sigarette ovunque, io col cappottino perchè faceva freddo, a cantare El Pueblo Unido storpiando le parole che non conoscevo, e col pugno sinistro chiuso come tutti, sotto al palco. A pochi metri da quei visi e da quei suoni così diversi, così caratteristici. Triple, charango, bombo. La musica che ti attraversa, ad un volume che per te è impensabile, quasi da giudizio universale. 
Da quel momento in poi mi è rimasto dentro un feeling tutto mio con suoni e testi del leggendario gruppo cileno. A casa c'erano tutti i loro dischi, tutti in vinile.

Racconto due cose su questo gruppo. Credo che ne valga la pena, almeno a mio giudizio. Gli Inti erano un gruppo già abbastanza noto. Durante gli anni Settanta erano in tournè, quando l'Undici Settembre 1973 un colpo di stato militare portò alla morte del presidente socialista Salvador Allende e all'instaurazione della dittatura del generale Augusto Pinochet. Il commento di Henry Kissinger fu un eloquente "Abbiamo semplicemente difeso gli interessi americani all'estero". 

Il gruppo si stabilì a Genzano, delizioso paesino dei Castelli Romani (pane e vino spettacolari!), perchè non potevano fare ritorno in patria per ovvi motivi. E portarono la loro musica in giro per l'Italia e per l'Europa. 
Una musica che dà sensazioni varie, non solo impegno politico e cuore. Ma anche il mercatino andino con le donne col viso screpolato dal sole e dall'altura, o semplici passaggi strumentali che ti invogliano a seguire i loro crescendo ritmati, o musiche che ti trasmettono quasi calura e stanchezza. Alla fine non hanno mai rinnegato sia le loro radici etniche che il carattere, in parte anche folcloristico, della loro musica, dei loro strumenti e delle loro tecniche. 

Fra tutte le varie prove che hanno fatto, voglio segnalare lo spettacolare omaggio al tema d'amore di Nuovo Cinema Paradiso (ehi, Morricone!) che non può non farci pensare ad ogni singola persona con cui abbiamo condiviso anche un solo momento da ricordare. 

E ogni tanto non resisto. In macchina, se mi capita di buttare quel cd nel lettore, tiro su i finestrini e canto a squarciagola!

E non posso non evidenziare una uscita di Beppe Grillo di uno squallore umano unico. Commentando la morte di Pinochet, con la solita finezza dialettica, si espresse nella forma e nella sostanza nei termini qui riportati

"Il suo delitto più grande è aver permesso la fuga in Italia degli Inti Illimani. Dal 1973 stazionano nelle nostre televisioni. Nelle feste dell’Unità. Da Pippo Baudo. Mi hanno fatto venire l’esaurimento nervoso. Sono dei reduci musicali a vita. La loro influenza politica è stata enorme. Spettacolo dopo spettacolo hanno esaltato ai nostri occhi l’operato di Pinochet. Creato una corrente giustificazionista per il regime. Per lo stadio-lager di Santiago."

Stranamente per una volta ha anche accettato il confronto e dato diritto di replica a Jorge Coulon.
Tenta di cavarsela con "ho fatto la battuta...".
"Jorge, io scherzavo. Sono un comico. So tutte le vostre canzoni a memoria.
Non sapevo che foste in Cile da 18 anni. Pensavo che foste ancora a Milano Marittima. La colpa è della televisione italiana che non aggiorna mai i programmi. Se tornate siete invitati a pranzo a casa mia. Ma senza chitarre. Perdonatemi se potete."

Gli Inti Illimani sono dei grandi. Artisti eccellenti e testimoni del loro tempo e del loro paese. Punto.




martedì 5 luglio 2011

Il secondo quarto

Nella vita di ognuno di noi deve essere un bel momento quello in cui stiamo dando tutto e ci accorgiamo che le cose si stanno mettendo nel modo giusto, che il destino sta per girare. In ogni contesto. Lavoro, amicizia, amore, sport. 
Quando ci troviamo davanti ad una serie di eventi positivi e i nostri sforzi continuano a generarne altri. Deve essere una bella sensazione. Sentire la vita che scorre bene dentro di noi, che stiamo costruendo qualche cosa di vero, che ci resterà per sempre.

Quello che ho scritto in maniera che non può che essere inadeguata, dovrebbe essere qualcosa di simile a quello che hanno provato i Green Bay Packers durante il Divisional Round a casa dei Falcons, top seed della NFC. I Packers erano arrivati ai playoff con l'ultimo treno utile, nel posticino di coda che prevede solo partite in trasferta verso la parte più ostica del tabellone. Erano comunque a pieno titolo nel gruppo delle squadre che nel campionato "vero" di gennaio-febbraio si giocano il titolo ed erano arrivati a quel punto nonostante un elevato numero di infortunati fra i titolari.

Riescono comunque a rovinare l'annata a Michael Vick, andando a vincere la wild card a casa dei Philadelphia Eagles. Ma il prossimo ostacolo sarebbero stati i Falcons. Matt Ryan, Michael Turner, Tony Gonzalez e una signora difesa. E un inquietante record di vittorie sotto la cupola del Georgia Dome. Quindi il pronostico appariva abbastanza chiaro. Bravi i Packers, belli da vedere, Rodgers è un fuoriclasse ma si fermeranno là. Questo si pensava.

La partita in effetti si mette proprio in quel modo. Il primo quarto parte con le due squadre che cercano di capire come sia attaccabile la difesa avversaria, in maniera abbastanza conservativa. Atlanta è in grado di controllare l'orologio avendo un runner come Michael Turner. Riesce a mettere su un drive sostenuto e colpisce per prima. Green Bay dimostra di sapere subito reagire e muovere la palla, chiudendo il primo quarto sotto di un touchdown e con il possesso. Rodgers ed i suoi terminano la serie nel modo giusto, con un touchdown di Jordy Nelson con dodici minuti e spicci sul cronometro alla fine del secondo quarto. Sette pari.

Da lì in poi si mette in moto quel meccanismo esaltante che ho cercato di spiegare all'inizio. Da lì in poi i Packers cominciano a rendersi conto di essere i Packers. E gli avvenimenti partono nella maniera più strana. Non c'è nemmeno il tempo di rallegrarsi per il pareggio che Eric Weems riporta il kickoff di Crosby direttamente in end zone dopo aver corso per 102 yards intoccato, evitando un paio di tentativi di placcaggio e poi lasciando semplicemente girare le gambe.

Prendere un touchdown in quel modo di solito taglia le gambe. Hai appena segnato. Magari sei in panca a gasare i ragazzi della difesa, ridateci quella cazzo di palla subito che ci pensiamo noi, e ti passa davanti quello con la maglia rossa e in un amen capisci che è andato, che verrà placcato solo dai suoi compagni, solo nella tua area di meta, solo per i festeggiamenti. Non è un bella sensazione. In una partita, più che mai in una partita di playoff, controllare il momentum è imprescindibile. E' la differenza fra vincere e tornarsene a casa.

Da lì in poi i Packers comiciano a scrivere la storia del loro 2011. Rodgers, che stava già facendo una partita molto solida, diventa praticamente infallibile. Guida i suoi per 92 yards in 10 giochi. E non lancia facile e corto. No. Gestisce la pressione, prende rischi, legge coperture in un modo che ho visto fare a gente come Montana, Elway, Manning, Brady. Non ha fretta, azione dopo azione fa la cosa giusta. E arriva il 14 pari dopo una corsa di Kuhn.

E questa partita diventa sempre più la storia di due giocatori. Rodgers, appunto. E Tramon Williams, il cornerback più attaccabile, di solito vittima sacrificale perchè sull'altro lato c'è un Charles Woodson. Williams fa un primo miracolo quando intercetta Matt Ryan all'interno della end zone dei Packers, anticipando Michael Jenkins con una elevazione terrificante. Il lancio di Ryan era un po' under, ok. Ma uccidere un drive in quel modo ha il suo peso sull'inerzia della partita.

E poi si riparte da Rodgers, che continua a non sbagliare niente. Cinque completi su sei, fino al lancio in end zone fra le mani di Greg Jennings, per il 21 a 14 che gela improvvisamente tutti i decibel che gonfiavano il tetto del Georgia Dome. Non è più un discorso di statistiche, di tendenze, di terzi down da convertire. Qui è un problema di emozioni. They were on their roll. Lo sguardo di Rodgers, che sembrava stesse facendo semplicemente quello che era previsto per lui in quel momento. I ricevitori, che si giovavano dello stato di grazia del loro quarterback. La linea, che dava tempo per fare tutto o quasi. La difesa, che stava imbavagliando la macchina perfetta di Ryan e dei suoi.

E manca poco, stanno per andare negli spogliatoi con un inaspettato vantaggio di una meta. I Falcons ovviamente vogliono provarci, si avvicinano e vogliono almeno arrivare a distanza di field goal. Tre punti non ti fanno schifo in quel momento. Ryan ha pochissimi secondi, buoni a quel punto per due giochi. La prassi è quella di pescare un ricevitore profondo e vicino alla linea laterale, in modo che esca dal campo, fermi il cronometro e permetta al kicker di entrare per il calcio. Ryan mira il suo bersaglio preferito, Roddy White. Ma è troppo scontata come soluzione, troppo. E poi c'è di nuovo Tramon Williams, che legge bene, anticipa White e senza più tempo sul cronometro sprinta per 70 yards e si ferma nell'area di meta dei Falcons. 28 a 14. Un parziale di 21 a 0. Lo stadio ammutolito, incredulo.

Vista, registrata, rivista un bel numero di volte, come per provare a ricavarne un incoraggiamento personale.

E la sensazione che stavano avendo loro al rientro nello spogliatoio.

We are the Green Bay Packers.