martedì 17 agosto 2010

The art of quarterbacking - John Elway

Non è facile parlare di football senza parlare di football. Tautologico. Ma ci sono delle figure e delle storie così limpide che permettono di togliersi anche questi sfizi. Sì, forse è lo sport che più di ogni altro si nutre di cifre, macina statistiche, tendenze, grafi. E' molto scienza esatta. Ma fra tutti gli sport che ho seguito o che ho provato a fare, forse questo è il mio.

Nessuna pretesa di essere capito. Ma è veramente simile alla vita, per quanto perdoni poco o nulla. E ha un suo pathos, una sua mistica. Da qualche tempo la tv usa un raggio luminoso nei replay in campo lungo per segnare la traiettoria di un lancio fra quarterback e ricevitore. Essere stato almeno una volta ad una delle due estremità di quel raggio significa qualcosa.

Il football è sport di uomini, che devono capire che l'interesse personale si identifica con quello della squadra. Esiste una figura di riferimento che ha il suo fascino. Il Quarterback. Non si traduce. E' il generale in campo, è spesso l'icona della sua squadra. In un contesto dove non riesci a contare quanti giocatori hanno stipendi monstre, quando il quarterback parla gli altri stanno zitti e ascoltano. Se è un vero leader. Altrimenti... Beh, parliamone il prossimo anno. La leadership di un quarterback è fatta di intangibili. Tecnica e personalità, non ti serve il droide che spara un lancio di ottanta yards ma i compagni non lo stimano. Non vai da nessuna parte.

John Elway è stato il migliore della mia generazione. Il cuore dice Marino, i numeri dicono Montana.

No. Elway è la parabola perfetta. Arriva come predestinato, talmente predestinato da imporre di giocare con Denver e non con i derelitti Colts che lo avevano scelto. Ma evolve presto nella scomoda veste di perdente di lusso. Arriva al gran ballo e buca la serata, o restando comunque sulla sufficienza (contro i Giants), o partendo alla grande per venir poi semplicemente outplayed da una squadra più squadra (contro i Redskins). O venendo tout court annientato, annichilito (contro i 49ers). E il tempo passa. E' vero, se un quarterback resta integro è come il vino, gli anni lo migliorano. Impara dai suoi errori, non deve giocarsi il posto ogni volta, semmai si preoccupa della successione. Ma dentro c'è un motivo a non fermarsi, se non hai vinto nulla. Non contano i milioni, non contano le botte. Forse i primi mitigheranno gli effetti delle ultime.

Elway nel tempo sfoderava sempre degli heartbreakers che non potevi non amare, anche se li ha fatti in faccia alla tua squadra.
The Drive, la leggendaria serie nel fango e nella neve di Cleveland. Un altra serie memorabile contro gli Oilers di Warren Moon, con due situazioni di do it or die risolte come poteva solo lui: il braccio e le gambe. E la testa. E il cuore.

Ma mancava qualcosa. Elway era in una squadra che fidava troppo solo su di lui. Difesa passabile, ricevitori onesti, ma nessun corridore che permettesse di variare un po' il menu in attacco. Fino all'arrivo di Terrell Davis nel 1995. I Denver Broncos arrivarono finalmente ad avere anche la dimensione che mancava loro storicamente, ormai. E John Elway aveva qualcuno che gli toglieva un po' di carico dalle spalle. Qualche innesto in difesa, e Denver nel 1998 arriva finalmente in finale, forse ancora con la scimmia dell'ultimo massacro patito contro i 49ers di Montana. E la finale non si preannuncia facile, contro i reigning World Champions, i Green Bay Packers di Brett Favre, di Reggie White, di tanti altri fuoriclasse.

La partita è in equilibrio, le squadre si rispondono colpo su colpo. Ma Elway sui lanci sta andando così così. La difesa dei Packers è fortissima, e in quel momento Terrell Davis, che stava dominando la partita, è ancora non al massimo per l'emicrania.

Forse esiste nella vita di ogni giocatore e spero di ogni persona il secondo in cui hai la possibilità di mettere tutto te stesso per la cosa in cui credi. E l'unica arma che hai per farcela è te stesso. Elway soffriva quella partita, e l'assenza di Davis lo stava ributtando nei panni di One Man Show. Ancora una volta. E a 37 anni, e una immeritata nomea di perdente.


C'è da guadagnare qualche yard per continuare ad andare verso l'area di meta dei Packers. Tre punti sono meglio di nulla, ma non sono sette punti. Devono guadagnare sette o otto yards. Cautela con i lanci in mezzo. Eugene Robinson aveva già intercettato Elway poco prima, e perdere la palla sarebbe stato letale.

Elway arretra. Cerca un compagno libero che non c'è. Inizia a correre, e a 37 anni ha perso un po' il suo passo. Non può permettersi di divagare all'esterno e cercare "la luce", lo fermerebbero prima. Va in mezzo, a vita persa. Contro tre difensori dei Packers. Tre.

Le parole di Eugene Robinson, uno dei tre.
"Because in that split second you knew that he wanted it, and wanted it more than anybody else on the football field."

Una azione così cambia qualsiasi partita. Nessun giocatore mollerà più niente, vedendo un trentasettenne multimilionario che non ha troppo altro da dimostrare fare quella cosa.
I Broncos segnarono, presero punti, segnarono ancora e vinsero una delle più belle partite mai viste. E vinsero ancora l'anno dopo, coronando l'ultima partita di Elway con l'ultima vittoria in una finale.

Ho avuto la fortuna di vedere il casco indossato da Elway in quella partita, autenticato, con foto e firma, in vendita a Dallas in uno store di Field Of Dreams. Prezzo inavvicinabile. Giusto, in fondo. E' il prezzo di una emozione.

Grazie John :)

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