venerdì 11 febbraio 2011

Say Cheese!

Per motivi di età non ho visto i Packers di Lombardi se non nei gloriosi filmati commentati da John Facenda. L'armata del generale Patton. Bart Starr, Paul Hornung, Forrest Gregg, Ray Nitzsche. Nomi leggendari, musi duri e nasi pisti. Freddo che ti si ghiaccia il video anche a vederli oggi. 

E Lombardi, appunto. Il grande vecchio, l'uomo per cui ogni giocatore era disposto a uccidere e morire. L'uomo che definì un sistema di valori e un'etica di lavoro nel football. Il trofeo che va nelle mani dei vincitori del Superbowl è il "Vince Lombardi Trophy", credo non serva altro.

Ma mi hanno sempre fatto simpatia. Un po' per le divise sempre uguali a quei Packers. Un po' per i gagliardetti appesi nel locale di Al nel telefilm Happy Days. Per i tifosi pazzi scatenati, allo stadio a torso nudo con la bufera di neve e il formaggione in testa. E poi una squadra gestita in regime di azionariato diffuso che riesce a vincere nel mondo dei pro fa sempre bene alle utopie personali. 

E ho sempre visto generazioni di Packers che ce la mettevano tutta, solo per il fatto di essere i Packers. Nei primi anni Ottanta facevano un gioco offensivo bellissimo, secondo solo ai Chargers. Lynn Dickey, signor quarterback ma misconosciuto. Un gruppo di ricevitori da sogno, capeggiati da James Lofton (John Jefferson e Paul Coffman completavano un trio da 1000 yds a stagione). Poche corse e niente difesa li condannavano all'inevitabile uscita prematura contro squadre più quadrate.

A fine anni Ottanta riprendono un po' quota, guidati da un QB sconosciuto, Don Majkovski, che aiutato dal talento cristallino di Sterling Sharpe e da qualche segno di vita in difesa, portò la squadra di nuovo verso record positivi, dando un po' una sterzata ad un ambiente che si era assopito.

Il resto è storia recente. Una trade con i Falcons nel 1992 porta a Green Bay Brett Favre, il quarterback più prolifico e longevo di sempre (non il migliore, secondo me). E nel 1993, l'immenso e compianto Reggie White in crisi personale lasciò i Philadelphia Eagles e disse di voler andare "just where God wants me to". Mike Holmgren, allenatore dei Packers, prese il telefono e gli disse "Reggie, this is God. Go to Green Bay!". Un Superbowl vinto, quello dopo perso in finale. Ma come ogni mostro sacro, Favre nel tempo cominciò ad essere una presenza ingombrante. Non aveva dichiaratamente un approccio "me first", ma spesso faceva sentire la sua voce prima del coach, e non è mai un bene in una squadra di football. Ma la dirigenza dei Packers è riuscita in maniera sontuosa a gestire il problema della successione (tanto per infliggermi dolore, i Dolphins stanno ancora cercando di rimpiazzare Dan Marino ormai da dieci anni). 

Nel 2005 scelgono al primo giro (24) Aaron Rodgers da University of Southern California. Gli danno tempo per maturare con un mentor indiscutibilmente forte. E nel 2008 scelgono. Ritirato o no, Favre non fa più parte dei loro piani e si va con Rodgers. Uno svecchiamento molto graduale è stato eseguito anche negli altri reparti, alcune scelte eccezionali (Hawk e Matthews), qualche trade solida (Woodson).

Una squadra costruita bene. Quest'anno sono riusciti a superare un robusto numero di infortuni (Jermichael Finley e Ryan Grant su tutti). Arrivano ai playoffs all'ultimo secondo, vincono tre trasferte. A Philadelphia, per rovinare la stagione a Michael Vick. Esplodono ad Atlanta, dove con facilità irrisoria massacrano i Falcons, top seed della NFC. Ormai non sono più un mistero per nessuno e vanno a vincere bene anche a Chicago, squadra con una buona difesa ma con una identità offensiva un po' insipida. Rodgers non sbaglia nulla. Non è un caso se come rating point in carriera è davanti a tutti. A Montana, Young, Brady, Manning. 

Fino ad arrivare al gran ballo finale contro gli Steelers, forti, esperti e abituati a vincere. Ma anche qui lo spirit dei Packers non viene meno. Rodgers gioca l'ennesima partita perfetta consecutiva. La difesa fa la differenza nel clutch time, conquistando palloni nei momenti nevralgici. E gloria sia, meritatamente. Il Lombardi Trophy ritorna "where it belongs", in quella città di circa centomila anime, dove il football vero si gioca sempre sotto la neve, dove c'è quel cartello stradale "Titletown", dove ci sono quei matti a torso nudo sotto la neve con le forme di formaggio in testa.

Complimenti davvero :)

Nessun commento:

Posta un commento