venerdì 14 maggio 2010

Lawrence Taylor

Quando ti massacrano gli idoli di gioventù ci resti male. Quando chi compie il sacrilegio è l'idolo stesso, ci resti anche peggio. Vedi che un'indole negativa non la correggi con i soldi, il successo, la gloria. Non basta mai, mai, mai.

Un esempio chiaro fu la storia di OJ Simpson, forse uno dei giocatori più belli da vedere in azione. Uscì pulito dall'accusa di duplice omicidio semplicemente grazie alla potenza monetaria che poteva mettere sul tavolo rispetto alle famiglie delle vittime. Ma chiaramente ognuno di noi può avere il suo giudizio.

Però non è la stessa cosa rispetto a LT. Simpson era la generazione precedente, lo conoscevo solo dai filmati. LT era uno di quei giocatori che valeva da solo il prezzo del biglietto, ho visto sue partite intere a decine. LT è stato senza nemmeno pensarci il miglior difensore degli anni Ottanta, e a tutt'oggi è il termine di paragone per ogni outside linebacker. Uno di quelli per cui scomodi la definizione di best ever nel suo ruolo senza troppe esitazioni.
Atleticamente di un altro mondo. Alto, grosso, veloce, reattività assurda, tecnica sopraffina, forza fisica impensabile. Capace di battere i bloccatori con la forza e con la velocità. Vero e proprio terrore degli attacchi avversari, che arrivavano anche a triplicarlo con l'ovvio risultato di lasciar strada libera ai vari Marshall, Carson, Reasons.

In soldoni, i NY Giants vinsero due titoli quando la difesa era, come si dice, ancorata dalla sua presenza. Quando un attacco deve approntare un game plan in funzione di un singolo avversario non è mai un buon segno. Tra l'altro, Lawrence Taylor in campo non era neppure un soggettaccio, s'è visto e si vede abbondantemente di peggio. Rimase anche impressionato dalla frattura che chiuse la carriera di Joe Theismann. Era una azione di gioco e quel tipo di infortunio poteva starci, purtroppo. Si ritirò nel 1993, dopo una carriera sontuosa, con qualche macchiolina per abuso di sostanze non consentite, ma anche qui c'è di peggio.
Introdotto nella Hall of Fame nel 1999, degno coronamento.

Questo era il giocatore.

Negli anni successivi ha vivacchiato sulla fama sacrosanta guadagnata sul campo. Tornei di golf, una parte in Any given Sunday, la solita partecipazione a Dancing with the Stars, che negli States sembra una parata di glorie del football.
Nel frattempo qualche incidente da VIP, diciamo così. Troppa disinvoltura con sostanze non ortodosse, qualche incomprensione col gentil sesso in camera da letto. E cominciavano anche ad emergere episodi del passato non proprio cristallini, in varie interviste rilasciate o dai suoi ex compagni o a volte anche da lui stesso, che lo faceva tanto per, non per dare esempi o avvertimenti ai giovani. In sostanza, Taylor anche da giocatore era molto disinvolto nell'uso di droghe, un fuoriclasse anche nell'eludere i controlli. E la sua classe gli permetteva di fare quello che voleva in allenamento, coi compagni, con il concetto di squadra, fondamentale anche quando girano milioni di dollari. Racconta Joe Morris, runner dei Giants, che addirittura un sergente di ferro quale Bill Parcells gli perdonava praticamente tutto. "C'erano due regolamenti interni, uno per noi mortali e uno per lui".

Ultima bravata, una accusa di stupro nei riguardi di una sedicenne fuggita da casa. La sua difesa ora è il classico "incontro a pagamento con presunta maggiorenne". Garantisti anche qui? Boh. Non vedo perchè e per chi. Non mi interessa coccolare l'icona di uno che ha avuto tutto e scientemente lo ha usato nel peggior modo possibile.
Forse la conclusione giusta è quella riportata dal grande Peter King in questo articolo di Sports Illustrated.
He's just mean.

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