La strage del Vajont a tutt'oggi rimane uno dei capitoli più silenziati della storia d'Italia. L'uso della parola strage ovviamente denota un giudizio personale ben orientato. Disastro? Sciagura? No. Il Vajont fu una strage, voluta in nome e per conto di interessi economici ben identificati nelle sedi processuali che hanno individuato colpevoli aventi volti, nomi e cognomi.
Chi fra questi aveva ancora in sè qualche caratteristica che lo avvicina alla definizione di uomo non resse e si tolse la vita. Ma qualcun altro, responsabile in massimo grado delle decisioni finali, non ebbe problemi a rendersi irreperibile subito dopo la sentenza.
Non posso nemmeno usare la formula "la storia è nota", per andare diretto alle osservazioni personali che qualcuno può avere l'interesse o la pazienza di leggere. No, la storia del Vajont non è nota. E' avvenuta in un tempo lontano, volendo. Nel 1963. Non è un evento di una telegenia tale da giustificare commemorazioni, speciali approfondimenti. Oggi va di moda il polpo Paul, simpatica e innocente icona del nulla. Il Vajont non fa audience. Storia vecchia, se ha mai valicato il confine fra cronaca e storia.
Un dato solo dovrebbe far riflettere. Crudo, contabile. Millenovecentodieci vittime accertate. Nessuna difficoltà a tirare su il conto verso le duemila unità. Il tutto per un manufatto che non doveva essere costruito, in nessun mondo possibile.
Nel tempo rimasi stupito dal silenzio ufficiale. Di solito mi interessa documentarmi sulla storia del mio paese. Fino al 1997, anno della trasmissione televisiva del bellissimo monologo di Marco Paolini, sapevo che era crollata una diga e c'erano stati tanti morti. Vai a capire. Sfiga, madre natura, fatalità.
Paolini raccontò tutta la storia della diga. La costruzione. Quello che succedeva agli abitanti di Erto e Casso: gli espropri, i soprusi, gli accordi sottobanco, le pressioni del potere. E quello che succedeva dal lato della SADE, dei vincitori predestinati. Connivenze politiche, affossamento delle perizie contrarie, sovrapposizioni fra controllori e controllati, collaudi pro forma, fastidio verso ogni minima misura di sicurezza. E con molta disciplina nella narrazione fa emergere anche figure di persone che si comportarono con dignità e onestà. Il presidente della provincia di Belluno, Alessandro da Borso, che voleva un minimo di chiarezza ed ottenne solo silenzi. Il figlio del progettista della diga, il geologo Edoardo Semenza, che venne erroneamente investito del ruolo di utile idiota quando gli venne richiesta una perizia sui fianchi della montagna che tutti si aspettavano morbida, plaudente e che invece affermò chiaramente l'irrealizzabilità del progetto. Suicida alla fine della vicenda processuale. Tina Merlin, cronista di provincia dell'Unità, unica voce costantemente vicino ai deboli, unica voce a urlare in anticipo il pericolo. Forse l'unica che avrebbe avuto titolo per parlare anche dopo. Affidò i suoi articoli ad un libello, "Sulla pelle viva", da cui trasse spunto Paolini per il suo monologo.
Un'opera vera, vissuta e sentita. Per rendere più fruibile il tutto, il primo tempo scorre via leggero, vengono raccontati i luoghi, le premesse, le storie, viene apparecchiato molto bene il contesto per la narrazione vera, per i fatti susseguenti all'attivazione della diga. Tutto documentato in maniera vincolata alla resa televisiva, ma anche completa per la narrazione dei fatti e per gli spunti di approfondimento, con qualche legittima concessione ad un minimo di retorica, se retorico può definirsi un omaggio a chi lì ha perso tutto. Lavoro, affetti, dignità, radici. Vita.
Guardatelo, se avete tempo. Soldi spesi bene per un dvd, altrimenti "a rate" in rete.
E con i complimenti a Marco Paolini, che poi si è cimentato nella narrazione di altre storie viste dal lato dei vinti, come Ustica e Bhopal.
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