giovedì 6 ottobre 2011

Ciao Steve

Steve Jobs (1955-2011)
Parlo da utente. La mia piccola storia con la visione che Steve Jobs aveva della tecnologia inizia qualche anno fa.

Cavolo, un po' più di qualche.

A casa di J, mio vicino di banco del liceo. Metà anni ottanta. Avevo quasi lo stesso numero di capelli del tipo in foto. A casa di J, dicevo, per me c'era una anteprima di America. C'era sua mamma che mi ha regalato annate intere di Sports Illustrated. C'era B, suo fratello, che mi ha mostrato il casco da gioco originale dei Miami Dolphins, facendomi capire per la prima volta l'intimo significato della parola invidia. Anche perchè, visto l'ingombro della mia scatola cranica, nemmeno sono riuscito a indossarlo. E c'era uno scatolone di plastica rigida biancastra. Un design che per l'epoca poteva dirsi austero. Qualche occasionale bip che usciva da un altoparlante. Che cosa ci facevamo? Ci giocavamo a Julius Erving and Larry Bird go one on one. In due, ai due estremi della tastiera. Un giochino di una marca sconosciuta. EA Sports. Lo scatolone aveva sopra una etichetta, Apple 2e. Cavolo, leggeva dai floppy da cinquenquarto. Io avevo il Commodore, che leggeva dal registratore a cassette, che ogni dieci giorni stavi là a litigare con l'azimut della testina altrimenti non avevi più dispositivi di input al di fuori di te stesso.

Sempre al liceo, qualche anno dopo. A casa di V, uno dei primissimi Mac. All'epoca dovevi dire MacIntosh, per esteso. Concetti assurdi, per un commodoriano a riga di comando come me. L'interfaccia grafica? Il mouse? No, troppo oltre, troppo. Ho capito anche per quale motivo oggi i notiziari più attenti ci hanno tenuto a dire che la svolta della vita di Jobs è stato il corso di calligrafia. Eleganza. Il termine è sufficiente a se stesso. Quei caratteri a spaziatura variabile, quel modo di vedere sullo schermo quello che non riuscivi a credere possibile. Per te, comune mortale, la p minuscola e la T maiuscola non avevano necessità di tutto sto studio, su. Con quel prodigio a metà fra tecnica e arte facemmo uno degli scherzi più spettacolari del periodo liceale. Usando un programma di editing fantastico, confezionammo degli appunti di storia dell'arte perfetti per convincere la povera B, reduce da una brutta influenza, dell'esistenza di un insidiosissimo Buontempo da Todi, che sarà stato pure un minore, ma il suo stile nella riproduzione del panneggio influenzò perfino Masaccio e la sua Madonna del Petrolio è in mostra tuttora al MoMa (!).

Salto di tanti anni. Vedevo tutte ste iThings fare vetrine in posti messi su con buon gusto. Sostanza? Boh, ero perplesso. Si, saranno anche belle frocerie, ma costano, eppoi? Vedevo qualche MacBook, carini, si ma...

Autunno 2007. Comincio a capire qualcosa. Il mio viaggio a Dallas. D e T che estasiati si comprano l'iPhone al locale Applestore. Io mi ritenevo più strutturalista che esteta (non so che vuol dire ma ho sonno...). Mi limitai a regalarmi un iPod Touch. Carino. Io ero un sempliciotto, uno da Walkman. Ma rimasi estasiato dalla facilità di utilizzo, dall'intuitività. Dalle prime app per vedermi in diretta i risultati delle partite di football. Dal libero accesso alla rete. Dal poter scrivere alla mia storica amica-di-email seduto su una panchina in un museo di arte che esponeva dei disegni di Phil Collins... Ovviamente ce l'ho ancora, il mio iPod.
Il ritorno in ufficio, con uno scatolone con un MacBookPro che era sul mio tavolo. Una ergonomia e una utilizzabilità talmente perfette che non ho mai, mai avuto bisogno di collegare un mouse. Semplicità: uno spazio piatto e le dita. Adoro quel notebook, mi piace quell'approccio al sistema operativo, così grafico ma così Unix.

Ciao Steve, per fortuna tua e nostra non sei nato in Italia. Le tue idee sarebbero state calpestate perchè non eri figlio di, amico di, servo di.

"Non c'è ragione per non seguire il vostro cuore"

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