martedì 11 gennaio 2011

La coppia ikeale

Non accetto il paragone che Ikea sta all'arredamento come McDonald sta alla ristorazione. Ingeneroso, semplicemente perchè il livello di qualità dei prodotti commercializzati nei due casi mi pare un po' diverso. Cioè: nutrirsi solo con cibo da fast food non mi pare un'idea geniale (in poco tempo il colesterolo si misura con la stecca dell'olio), arredare una intera casa con mobilio autoassemblato e in quella fascia di qualità/prezzo può starci. Con tutta la diversità dei due contesti, ovvio. Il paragone è solo indotto dai volumi ingenti di business dei due marchi.

Pregi e difetti, sia chiaro. Il design si paga, nessuno regala nulla. Se vanno sostenuti costi extra quali trasporto o altre necessità accessorie diventa difficile parlare di prezzi bassi. 

E ogni tanto ci si ritrova in mano con una inquietante coppia vite-bullone in apparente soprannumero (il foglio istruzioni dice dodici, e se le conti sono dodici, non ci sono santi...) proprio quando l'orgasmo bricolistico assemblativo sembrerebbe trionfalmente concluso.

Ma quello che mi interessava notare non riguarda tanto i prodotti che si trovano lì, per la inevitabile soggettività dei giudizi, quanto alcuni pattern ricorrenti nei colossali magazzini gialloblu. Una cosa che adoro di quel posto sono i nomi degli articoli in vendita. Quelli scritti di seguito sono tutti inventati ma verosimili. Tutti tranne uno.

Un passaggio da Ikea, non nascondiamoci dietro un dito, è un indicatore quasi matematico dello stato di salute di una coppia. E' il posto dove incrocia chi vuole mettere su casa in un certo modo o con un certo budget, o chi vuole andare lì anche solo per osservare qualche soluzione o qualche idea. Io mi limito spesso ad osservare gli altri, appunto.

Nei giorni di punta, il lato maschile della coppia arriva già abbastanza provato dal fatto che solo per parcheggiare ci stanno anche code dell'ordine dei quaranta minuti (tipo bollino nero al casello di Melegnano). La cosa all'interno è proporzionale, chiaramente.
Quando passando fra i divani l'esemplare maschile per caso cade sfinito su Svatorflat, la dolce metà lo redarguisce: "Vabbene che i rivestimenti cambiano, ma dopo aver visto Cramptifor io su Svatorflat nemmeno ci poggio il bucato". E lui ossequioso si rialza. L'idea mistica della coppia di Peynet vacilla appena in quel limbo tra il self service dell'area mobili e le casse, dove lui fa notare che per una confezione di asciugamani Trikkesat (sebbene policromi) forse non ha molto senso buttare tre ore di tempo.

Altro momento catartico è il punto gastronomico. Qui, tronfio della superiorità tricolore, capisco in effetti che lui sogni una carbonara fumante e declini con modi appena più pronunciati un assaggio di Kuntrift dall'aria stantia, qualsiasi cosa sia.

E le coppie si mettono alla prova così, giorno dopo giorno, chaise longue dopo chaise longue, poltrona dopo poltrona, non se ne esce. 

Si parte dal rivestimento del divano, si prosegue con lampade che sono più da museo di design che da abitazione media e si finisce più o meno come i due che ho visto venerdì scorso, con lei che guardandolo netto negli occhi, coram populo lo ha apostrofato come il letto a castello in figura. 
Almeno m'è parso di capire.

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